Etiopia, bombardata la fabbrica Mesfin Engineering nella regione del Tigray

L’aviazione di Addis Abeba sta attaccando le fabbriche di munizioni e di materiale bellico del capoluogo tigrino

di Marilena Dolce
Esteri
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L’aviazione etiopica dal 18 ottobre ha iniziato a bombardare il Tigray, regione a nord del Paese.  Un’operazione militare contro il Tplf, (Tigray People’s Liberation Front) dice Ena, agenzia di stampa governativa. Un attacco “condotto con la massima attenzione per prevenire vittime civili e colpire mezzi e apparecchiature di comunicazione usate dai ribelli”. Bombardato il complesso industriale Mesfin Industrial Engineering, del gruppo statale Effort, riconvertito per uso militare. 

Fonti non governative, tra le quali il portavoce delle agenzie Onu, parlano di una decina di feriti tra i civili, forse tre morti. Il portavoce del governo, Legesse Tulu, conferma che obiettivo dei bombardamenti sono le strutture che il Tplf utilizza per la costruzione e riparazione di armi. 

Televisioni e stampa tigrina diffondono, a beneficio della stampa estera, video e foto nelle quali colonne di fumo nero si alzano su Mekelle. I meta dati però indicano che tali incendi sarebbero precedenti ai bombardamenti, di cui, per il momento, non ci sono immagini. Guardando a ritroso il conflitto iniziato quasi un anno fa tra governo centrale e Tplf, partito di maggioranza nel Tigray, vi sono almeno tre date da sottolineare per capire gli accadimenti di questi ultimi giorni. 

Il 21 giugno, data delle elezioni nazionali che si svolgono nella maggior parte del Paese, arriva la vittoria del Partito della Prosperità. Poco dopo, il 28 dello stesso mese, il premier Abiy Ahmed annuncia la tregua unilaterale, concessa formalmente per motivi umanitari e, di fatto, ignorata dal Tplf. Infine, il 4 ottobre, giorno dell’insediamento di Abiy Ahmed che compone un nuovo governo con ministri di etnia Amhara e Oromo, senza rappresentanti del Tplf.  

Inizia così, ufficialmente, la seconda fase politica del premier, dopo un esordio segnato, nel 2019, dall’acclamazione internazionale con il Nobel per la Pace. Un riconoscimento per aver messo fine allo stato d’emergenza interno al Paese e per il disgelo con l’Eritrea. Tra Eritrea ed Etiopia, infatti, le relazioni politiche e diplomatiche non erano mai riprese dopo la guerra del 1998-2000. 

Sullo sfondo di questo clima positivo, rappresentato simbolicamente proprio dalla firma ad Asmara tra il premier Abiy Ahmed e il presidente Isaias Afwerki, il rancore del Tplf, partito al potere dagli anni Novanta, che ha nel Tigray, regione dell’altopiano confinante con l’Eritrea, il proprio quartier generale. I tentativi di dialogo del governo centrale con il Tplf naufragano in un nulla di fatto che porterà il 4 novembre 2020 all’inizio dello scontro armato. 

"I sentimenti filo indipendentisti nel Tigray sono cresciuti a partire dal 2018, in concomitanza con l'inizio del processo di marginalizzazione del Tplf dalle stanze del potere federale. Nelle elezioni 2020 (ndr, quelle indette nel Tigray nonostante nel Paese fossero state rimandate per l’emergenza Covid e i cui risultati il governo centrale non riconosce), il Fronte vince con il 98 per cento dei voti. Va notato però che alle urne si presentarono partititi che sostenevano apertamente l’indipendenza. Un modo questo per il Fronte di dare visibilità estrema a tale richiesta politica, ponendosi al contempo come garante perché il Tigray restasse parte dell’Etiopia. Dopo il 4 novembre la corrente indipendentista in seno al Fronte riprende vigore. Non è utopico pensare che adesso, una parte del Tplf, veda possibile l’indipendenza del Tigray da Addis Abeba, ritenendo per questo necessario l’accesso al mare (ndr, verso la costa eritrea) o alla frontiera con il Sudan. Questo per evitare un isolamento geografico e politico”. Così spiega Luca Puddu, Università Federico II di Napoli, ad Affari Italiani. 

Dopo l’armistizio il Tplf riprende Mekelle. Mentre gran parte della stampa internazionale ne racconta la fiera vittoria, gli analisti e osservatori più attenti si chiedono il vero motivo della ritirata dell’esercito federale.  È una sconfitta? Una resa sotto forma di tregua? Hanno vinto i tigrini del Tplf? 

“Il ritiro dal Tigray”, spiega Puddu, “non è stato pianificato meticolosamente, ma fatto e comunicato dopo le elezioni, proprio perché era una scelta impopolare che sarebbe costata al premier in termini di consenso. I ribelli tigrini, d’altro canto, in questo modo hanno sfruttato il momento per prendere armamenti dell'esercito in rotta. Ciò ha posto le basi per la successiva controffensiva nella regione Amhara. Dietro il ritiro dell’esercito federale penso ci siano state le difficoltà a garantire gli approvvigionamenti per le truppe di stanza a Mekelle, la crisi economica del Paese e le forti pressioni internazionali. Oltre, naturalmente, alla pressione militare esercitata dal Tplf".

“Gli oppositori di Abiy”, aggiunge una fonte etiopica che per parlare chiede l’anonimato, “dicono che la ritirata è stata causata dal disastro militare subìto dall’esercito federale, che si tratta perciò di una vittoria tigrina. Non è così. Come farà il Tigray adesso? Come faranno i tigrini a dar da mangiare alla loro popolazione? Non c’è elettricità, mancano le linee telefoniche, senza il governo centrale alle spalle, come faranno a ricevere gli aiuti? Mekelle sarà una città morta perché il Tigray non è una regione autonoma economicamente”. 

Che la ritirata dell’esercito federale sia stata una decisione infelice è il pensiero anche di un diplomatico dell’Unione Africana che si esprime con garanzia di anonimato e dice, riferendosi all’esercito federale, che “hanno lasciato che il Tplf entrasse in città e si rifornisse di tutto ciò che le agenzie delle Nazioni Unite avevano mandato”. “Il premier Abiy”, spiega la fonte, “si è ritirato per le pressioni esterne, soprattutto americane, ma è stato un errore militare. Quando dovrà riprendere a combattere dovrà farlo anche nelle città, e ciò non è mai un bene. In questi casi se si cede alle pressioni bisogna sapere che chi preme non è un alleato ma un nemico. Se chi ha fatto pressioni per il ritiro fosse stato almeno neutrale avrebbe imposto al Tplf di non attaccare, ma non è stato così”. 

“Una volta ripreso il Tigray, l’obiettivo del Tplf sarà quello di attaccare le regioni vicine. Attaccheranno la regione Amhara. Vogliono vendetta per l’aiuto dato dalle milizie amhara all’esercito federale. I leader Tplf l’hanno detto chiaramente”. Così spiegava subito dopo l’armistizio la testimone etiopica. E, purtroppo, gli avvenimenti successivi confermano la sua previsione. A fine agosto il Tplf attacca i centri abitati nelle confinanti regioni Amhara e Afar.  

“La guerra del Tplf nella regione Amhara avrebbe potuto durare poco, invece sta continuando, perché?” Così si chiede la testimone, che prosegue, “dopo l’armistizio e il ritiro delle truppe governative, c’era da aspettarsi un attacco contro le regioni Amhara e Afar. Il Tplf è entrato con i carri armati. Abbiamo saputo che mandavano avanti i bambini, altra storia incredibile, ma dietro c’era il Tdf, le forze di difesa del Tigray, armate fino ai denti. I contadini amhara si sono trovati a fronteggiare l’assalto con bastoni e qualche vecchio fucile. Amhara e Afar non hanno armi pesanti nei loro arsenali. Ora i diseredati di cui nessuno parla sono proprio loro. Forse dietro la decisione di  tregua unilaterale c’è l’arma internazionale delle sanzioni. Penso sia stata un’inevitabile decisione politica, ma a che prezzo? Il premier Abiy sapeva che il Tplf avrebbe attaccato, che il mondo avrebbe visto di cosa sono capaci. Forse pensava che all’estero avrebbero capito che stavano sostenendo chi portava morte e distruzione ma, ripeto, a che prezzo per la popolazione civile? Ora più di trecentomila persone sono profughi, sfollati nel loro stesso Paese. E nessuno ne parla. Per la comunità internazionale l’unica vittima resta il Tplf”. 

In effetti, quasi contemporaneamente ai servizi delle televisioni locali amhara che testimoniano l’orrore dell’attacco Tplf contro numerosissimi obiettivi civili, il presidente Biden, comunica che “gli Stati Uniti sono determinati a spingere per una soluzione pacifica”, perché il conflitto nel nord dell’Etiopia è una tragedia che mette a rischio la stessa unità del Paese. Quindi informa di aver firmato un nuovo regime di sanzioni per prendere di mira i responsabili del conflitto, l’Etiopia e i suoi alleati, tra i quali l’Eritrea. 

Nel frattempo le immagini che scorrono nei video in rete e nelle Tv amhara mostrano la distruzione di chiese, ospedali, ambulatori, case. Le persone intervistate piangono, raccontano la paura e la sofferenza, l’ingiustizia di una vita interrotta dagli attacchi delle forze ribelli, la “junta”, come li chiamano, cioè il Tplf che ha iniziato la guerra e che non teme sanzioni. 

I civili scappano da Kobo, dopo l’attacco dei combattenti. La Bbc, nei campi profughi di Dessie, intervista persone disperate che raccontano quanto è successo. La commissione etiope per i diritti umani (EHRC) dichiara il proprio allarme per gli attacchi contro i civili, per i saccheggi e la distruzioni delle infrastrutture. 

Ethiopia Observer descrive il dramma di moltissime donne che non possono più partorire assistite per la mancanza di ambulatori, per la pericolosità di restare nei luoghi sotto attacco. Secondo le stime del Ministero della Sanità ogni mese nella zona nord di Wollo partoriscono circa seimila donne, che non potranno più farlo in sicurezza. Ma queste storie e i moltissimi dati disponibili restano nelle pagine della cronaca locale, non entrano nei rapporti internazionali. 

Nelle aree della regione controllate dal Tplf sono state distrutte 2.903 scuole, frequentate da un milione e mezzo di studenti. Cinquecentomila è il numero degli sfollati in costante aggiornamento. Dati questi che si sommano al massacro di Mai Kadra nel quale hanno perso la vita duemila civili uccisi dal Tdf, o ai morti, oltre duecento di Chinna, a nord di Gondar. 

Perché l’Occidente di questa guerra vede solo una faccia della medaglia, quella degli abusi in Tigray ma non quanto inflitto dal braccio armato del Tplf, nelle regioni Amhara e Afar? “Questa diversità è dovuta alla differente capacità degli attori in campo di fornire una rappresentazione degli eventi alla comunità internazionale. La controffensiva del Tplf nella regione Amhara ha ricevuto una copertura mediatica inferiore per la capacità tigrina di dominare i repertori concettuali cari a parte della comunità internazionale, toccando tasti come il rischio di crisi umanitaria, carestia e finanche genocidio”, dice Luca Puddu, che prosegue , “inoltre la presenza di ex ufficiali del Tplf nelle alte sfere della burocrazia internazionale è stata un megafono per queste istanze. Qui però non si tratta di fare gerarchie tra catastrofi maggiori o minori. Volenti o nolenti il rilievo mediatico del Tplf è maggiore perché loro in Etiopia sono stati un partito di governo per trent’anni, attaccato ora da un uomo insignito con il premio Nobel per la Pace…”.  

In un conflitto che è una feroce guerra di parole e immagini, anche i numeri combattono tra loro non rendendo semplice la comprensione dei fatti. La comunità internazionale, con le proprie diverse agenzie governative e non, fin da subito, parla di crimini di guerra, ritenendo necessario un intervento a garanzia dei diritti umani. Perciò il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite propone sanzioni contro Etiopia ed Eritrea, bloccate dai voti contrari di Cina, India e Russia. Passeranno invece le sanzioni sui viaggi emesse dall’Unione Europea. 

Nel frattempo si decide che nel Tigray sia necessario l’invio di camion carichi di aiuti internazionali per evitare che la fame diventi un’arma contro i civili. Secondo il portavoce delle Nazioni Unite ne dovrebbero arrivare cento al giorno, invece ne sarebbero arrivati solo trecentoventi in tre mesi. Questo per colpa del governo etiopico, dice Samantha Power, UsAid. Addis Abeba il 4 settembre risponde a tale accusa asserendo che in una settimana sono entrati circa cinquecento camion carichi di aiuti. Poco dopo a queste cifre si aggiungerà quella dei camion tornati vuoti, solo 38 su 466, così scrive in un tweet l’agenzia UN in Etiopia. 

E gli altri? Pare siano utilizzati dal Tplf per trasportare soldati e armamenti. A proposito di armi sembra che insieme agli aiuti internazionali arrivassero anche queste, destinate al Tplf. 

“Quello dell’utilizzo degli aiuti umanitari non è un problema sorto con questo conflitto. In Etiopia, dove crisi umanitarie e carestie sono eventi ricorrenti, negli ultimi quarant’anni c’è stato un sistematico utilizzo politico degli aiuti al Tigray”, spiega Puddu, che prosegue, “naturalmente mi riferisco a eventi passati, come la carestia del 1983-1985, non sono a conoscenza di traffici di armi inviate insieme agli aiuti attuali Quello che voglio dire è che non mi stupirei se Addis Abeba fosse restia a lasciar passare gli aiuti perché, nel recente passato, (anni Ottanta) si sono rivelati decisivi per sostenere lo sforzo bellico del Tplf che, proprio grazie agli aiuti, ha portato avanti lo sforzo bellico contro il Derg (ndr, il Derg era la giunta militare durante la dittatura di Menghistu Hailè Mariam)”.

La questione degli aiuti rispecchierebbe quindi la contrapposizione politica tra governo e Tplf.  “Da un lato il premier Abiy si rifà al principio di non ingerenza negli affari interni, alla supremazia del governo centrale e al suo diritto di gestire i fenomeni insurrezionali all’interno del proprio territorio. Dall’altro i ribelli tigrini invocano l’eccezionalità della crisi umanitaria, il rispetto dei diritti umani fondamentali come norma che scavalca il principio di sovranità e che dovrebbe legittimare l’intervento della comunità internazionale per impedire la carestia e quei crimini contro l’umanità imputati all’esercito federale e ai suoi alleati”, spiega Puddu. 

Osservando dall’esterno le diverse dichiarazioni delle molte agenzie UN sul campo, sembra che anche per loro sia difficile muoversi in maniera univoca. È vero, come è stato osservato, che l’organizzazione stessa non è un monolite, però pare che le fratture stiano moltiplicandosi. 

Lo scorso 30 settembre il Ministero degli Affari Esteri etiopico ha espulso ,definendo ciascuno di loro “persona non grata”, sette rappresentati di altrettante agenzie, sostanzialmente per essersi intromessi nelle vicende interne al Paese. Da rapporti non ufficiali trapela un’insofferenza tra chi lavora per l’UN ad Addis Abeba e chi arriva da fuori, Ginevra oppure New York, diretto a Mekelle senza passare per gli uffici della capitale. Per questi motivi una fonte UN ha espresso, con garanzia di anonimato, dubbi sui numeri della crisi diffusi e riportati dalla stampa internazionale. 

Prendiamo i più significativi. Tutti scrivono, spiega, che l’attuale crisi umanitaria nel Tigray, regione con circa sei milioni di abitanti, riguardi 5 milioni di persone bisognose di aiuto. Tra loro 2 milioni sarebbero sfollati e 400 mila a rischio fame per la carestia incipiente. 

Nessuno intende minimizzare gli effetti devastanti della guerra, solo capire meglio da dove arrivano questi numeri. Li fornisce Health Cluster Coordination, coordinato dall’Oms, (Organizzazione Mondiale sulla Sanità) al cui vertice c’è Tedros Adhanom. A gennaio 2021 il Cluster, insieme a UN OCHA stima, in base a un metodo approvato a livello globale, che il numero di tigrini bisognoso di aiuti sia di circa 2.8 milioni di persone. 

Successivamente però l’equipe di base nel Tigray lo corregge senza spiegarne i motivi e senza mostrare i calcoli, così il numero che viene diffuso sale a 3.8 milioni. Allo stesso modo il numero di sfollati aumenta diventando due milioni. La fonte anonima prosegue spiegando che lo scorso giugno, nel Tigray, è stata condotta una campagna di vaccinazioni contro il colera che, sulla base di questi numeri, prende in considerazione per il vaccino un milione di sfollati interni. In realtà le persone sfollate risulteranno infinitamente meno. 

La stessa fonte rivela che anche il livello di allerta della crisi nel Tigray è strumentalmente elevato a 3, perché arrivassero nella zona maggiori aiuti e personale UN. La teoria è che la crisi del Tigray, coordinata di fatto attraverso l’Oms, veda l’invio a Mekelle di persone che riferiscano direttamente a Tedros Adhanom, un tempo membro del comitato esecutivo del Tplf. 

Alle due parti in guerra, Tplf e governo centrale, la comunità internazionale, chiede ora di sedersi intorno a un tavolo per avviare il processo di pace. Potrà il premier Abiy trattare con un’organizzazione che il Parlamento ha definito terrorista? 

Per Alex Rondos, che di quella comunità internazionale fa parte, inviato speciale dell’Unione Europea per il Corno d’Africa, per fermare armi, fame e carestia la trattativa tra Abiy e Tplf è fondamentale. 

La sua opinione si basa su paralleli storici. Secondo lui l’Etiopia dovrebbe essere condotta per mano dall’Occidente verso la pace, per non diventare il Ruanda o la Bosnia, spiega, citando l’accordo di Dayton. Ma è sufficiente la presenza di etnie differenti perché la linea storica di questi paesi, così diversi tra loro, si possa sovrapporre e accomunare? 

Secondo Puddu la questione resta più militare che politica. “Se una delle due parti si accorgerà di non avere la capacità militare di portare lo scontro a proprio favore, penserà ai negoziati. Per il momento, militarmente, il coltello dalla parte del manico ce l’ha il primo ministro Abiy Ahmed, che però non sembra interessato a negoziare. Quanto allo scontro nella regione Amhara tale condizione ha permesso al Tplf di spostare l'epicentro del conflitto fuori dai confini del Tigray. Per questo potrebbero negoziare la ritirata dai territori occupati in cambio del ritiro dell'esercito federale dal Tigray occidentale."

L’opinione delle testimone etiopica è che alla fine la vittoria nel conflitto in corso in Amhara sarà dell’esercito federale, mentre il Tplf sarà sconfitto. La popolazione però avrà pagato un alto tributo”. 

Per il momento nel Paese la pace comunque non sembra vicina. 

Ma una pace a qualunque costo non farebbe che preparare un nuovo conflitto, se le ragioni di fondo che hanno determinato questa guerra non saranno rimosse. 

Il governo federale chiede la smilitarizzazione dell’esercito tigrino che ha provocato la guerra e la resa dei dirigenti del Tplf, considerati terroristi e secessionisti. Nei prossimi mesi conosceremo il destino di un Paese, con più di cento milioni di abitanti, la cui stabilità è fondamentale per l’equilibrio dell’intero continente.