Etiopia, la pace è ancora lontana: il Tigray si prepara a una nuova offensiva
Mentre l’Etiopia parla di pace, il Tplf aspetta di armarsi per continuare la guerra, anche contro l’Eritrea, così dicono fonti interne al paese
Etiopia verso un negoziato di pace, ma il tono del Tplf si surriscalda: vuole una nuova guerra contro l'Eritrea
In Etiopia, alla vigilia di un possibile negoziato di pace, sono ancora molti gli interrogativi aperti. Mentre il governo del premier Abiy Ahmed forma un gruppo di negoziatori per la pace, il tono del Tplf (Tigray People’s Liberation Front) si surriscalda. Da Mekelle, capoluogo del Tigray, regione dell’altopiano in lotta contro lo Stato da novembre 2020, giungono voci di guerra. Il Parlamento regionale del Tigray ha dichiarato che il Tplf è pronto a una nuova guerra contro l’Eritrea, “per incorporarne il territorio nel Grande Tigray”.
Un progetto storico, quello di un Tigray indipendente, non ancora archiviato che, anzi, in questo lungo periodo di tregua il Tplf avrebbe utilizzato per rivitalizzare le energie delle milizie TDF, Forze Speciali Tigray, stanche di combattere tra incertezze e sconfitte. Così la nuova strategia sarebbe quella di temporeggiare. Fingersi pronti alla trattativa di pace e prepararsi invece a una nuova offensiva. Nonostante la débacle militare, per il Tplf, governo federale ed Eritrea restano i nemici da combattere. La prospettiva non è cambiata, ancora sostenuta dall’appoggio americano. Per rendersene conto è sufficiente leggere social e media Tplf che riportano quotidianamente belligeranti dichiarazioni. Quella attuale è una tregua armata che servirebbe al Tplf per riarmarsi.
Una strategia del resto non molto diversa da quella messa in atto nel 2021. Allora, quando l’esercito federale aveva abbandonato il Tigray, proclamando una tregua unilaterale, le milizie tigrine anziché adeguarsi avevano attaccato i civili nei territori da loro occupati. Una ferita ancora aperta per Amhara e Afar, le due popolazioni che hanno subito saccheggi, uccisioni, stupri e quanto di peggio si possa elencare tra i crimini di guerra. Impossibile dimenticare la violenza dell’eccidio di Mai Kadra, di cui Affari Italiani aveva dato notizia (leggi qui l'articolo) costato la vita a diecimila Amhara. Un episodio di pulizia etnica condotto dal Tplf e a lungo ignorato dalla stampa occidentale.
Anche questo a riprova della capacità dell’ex partito di governo di manipolare l’informazione per l’Occidente. Il Tplf si starebbe riorganizzando perché non potrebbe permettersi una pace che farebbe venire al pettine molti scomodi nodi. Sono tanti i Tigrini che accusano il Tplf di aver seguito una politica suicida, responsabile della morte di moltissime persone. Insomma una pace senza vittoria porterebbe il Tplf verso una notte dei lunghi coltelli. Il loro obiettivo in questo momento è la sopravvivenza del partito e la guerra sarebbe l’arma migliore contro il formarsi di gruppi favorevoli a un’Etiopia pacifica e amica dell’Eritrea.
Semplificando all’estremo l’attuale situazione politica interna dell’Etiopia si potrebbe dire che due sono le correnti, una unitaria, di chi si sente “etiopico”, senza divisioni per etnie e religione e l’altra invece, quella del Tplf per ventisette anni al potere, basata proprio sulla divisione tra le diverse etnie. Un sostegno al vecchio piano politico del Tplf arriva da molte parti, non secondario l’appoggio dell’Egitto che considerando una minaccia la diga sul Nilo parteggia per un’Etiopia divisa e instabile.
Etiopia, l'Occidente guarda con distrazione i problemi e i conflitti del Corno d'Africa
Intanto l’Occidente osserva con distrazione i problemi e i conflitti del Corno d’Africa, sentendosi molto più coinvolta nella guerra in Ucraina. Tuttavia proprio in queste settimane l’interesse per lo scontro nel Tigray si sta riaccendendo, portando con sé vecchie accuse contro l’Eritrea.
A Ginevra ai primi di giugno è stato presentato un rapporto che accusa l’Eritrea per l’appoggio militare al governo federale. Insieme alle nuove accuse sono però tornati a galla molti vecchi stereotipi, primo fra tutti, “Eritrea, Corea del Nord Africana”, come titolava nel 2010 un reportage di Jeune Afrique. E pazienza se chi conosce il Paese alza gli occhi al cielo, chiedendosi come mai e per quale ciclicità possano tornar fuori questioni a cui l’Eritrea ha risposto molte volte.
Ricordo che dopo un viaggio proprio in Eritrea, al rientro leggendo titoli come: “Eritrea, la dittatura obbliga alla poligamia”, mi chiedevo come fosse possibile spingersi così oltre il ridicolo, per non scomodare l’inesistente controllo delle fonti…
Resta il fatto che l’Eritrea, giovane Stato africano, spesso al centro di attacchi e polemiche, è una pedina importante per la sicurezza del Corno d’Africa. A riprova di ciò la visita ufficiale ad Asmara avvenuta qualche giorno fa del neo presidente della Somalia, Hassan Sheikh Mahmud.
Momento centrale dell’incontro con il presidente Isaias Afwerki, la partecipazione del presidente somalo alla cerimonia conclusiva del triennio di formazione compiuto in Eritrea da cinquemila militari somali. Che il presidente somalo abbia deciso di assistere al loro diploma è anche un messaggio contro l’informazione falsa data a suo tempo. La stampa interna infatti aveva diffuso l’allarmante notizia che i soldati somali fossero stati mandati in Eritrea per combattere nel Tigray.
Ginevra incolpa inoltre l’Eritrea di far scappare i propri giovani dal paese. Eppure basterebbe provare a prenotare un volo per Asmara, per quest’estate, per accorgersi che sono tutti pieni. Decine di migliaia di eritrei, anche giovani, rientrano in patria. Proprio la guerra nel Tigray avrebbe dovuto accendere una lampadina sulla questione dei giovani eritrei che fuggono.
Considerando che in Eritrea e nel Tigray si parla la stessa lingua e che somaticamente non ci sono differenze, possibile non sia mai venuto il dubbio, in tutti questi anni, che a dichiararsi eritrei fossero molti Tigrini? In questo modo infatti i Tigrini ottenevano lo status di rifugiato politico garantito dall’Occidente agli eritrei. Uno scambio di nazionalità che avrebbe aperto loro anche la possibilità di lavorare come “testimoni oculari” delle nefandezze del proprio Paese, che da quel momento in poi sarebbe stato l’Eritrea.
Ong, report internazionali, Commissione per i Diritti Umani puntano il dito contro l’Eritrea. Dice a microfono spento un funzionario Onu di origine africana: “l’Africa è una colonia. I Paesi africani non sono indipendenti come non lo siamo noi funzionari di organismi internazionali. L’Eritrea è considerata un’eccezione. Io la conosco bene perché vi ho lavorato per anni.
Le decisioni politiche in Eritrea non si prendono sulla base della convenienza del momento. Loro ragionano su principi d’indipendenza e su valutazioni che tengono conto di ciò che considerano giusto, con una visione nel lungo periodo. Parlano sempre di generazioni future. Secondo me se l’Africa vuole cambiare e decidere del proprio destino deve seguire l’esempio dell’Eritrea. Gli eritrei sono i veri Panafricanisti, non come quelli che si dicono tali ma poi sono lo strumento dell’Occidente.
L’Africa deve contare sulle proprie forze, sulle proprie risorse e trattare alla pari con l’Occidente, con dignità. Solo questo tipo di Panafricanismo potrà essere incisivo e toglierci dalla dipendenza e dalla miseria. Del resto se l’Eritrea è combattuta così duramente almeno noi africani dovremmo riflettere e chiederci perché”.
In effetti l’Eritrea da marzo di quest’anno è di nuovo nell’occhio del ciclone. Sul banco degli imputati l’esercito accusato di essere andato a combattere nel Tigray, anche se non è stata un’invasione. L’intervento dell’Eritrea è stato richiesto dal premier Abiy Ahmed, insignito del premio Nobel per la Pace nel 2019, proprio per aver definito la questione con l’Eritrea. Una vicenda rimasta a lungo sospesa per la speranza dell’ex premier Meles Zenawi di capovolgere il verdetto del 2002 favorevole all’Eritrea sulla demarcazione del confine.
Tornando all’attualità, le sanzioni contro l’esercito (EDF), il PFDJ, partito governativo e altri soggetti sono state decise, come detto dagli Stati Uniti, per il “ruolo continuo” dell’Eritrea nella guerra in Etiopia. A differenza della versione romantica che pervade le analisi europee e americane a essere aggredito dal governo e dai suoi alleati, non è stato però un gruppo di intrepidi guerriglieri, ma gente rimasta a lungo al potere ad Addis Abeba. L’assalto alla Caserma Nord era il segnale di un colpo di Stato, poi fallito.
Etiopia, tutti i numeri della guerra dimenticata
Ricordiamo i numeri di questa guerra dimenticata. Nella zona del Tigray vivono circa sei milioni di persone, la maggior parte di loro adesso ha bisogno di aiuto per sopravvivere. Poi ci sono undici milioni di sfollati Amhara e almeno un milione di Afar che hanno dovuto abbandonare le case per vivere nella precarietà dei campi profughi. In questo quadro prioritario è far arrivare gli aiuti. Ma anche su questo punto si innesca una guerra d’informazione.
Twittava qualche giorno fa il responsabile dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che la carestia in corso nel Tigray è colpa dell’assedio delle forze federali dell’Etiopia e dell’esercito dell’Eritrea. Per questo, dice, sei milioni di persone, sono “sigillate” da venti mesi nella regione.
Sempre via tweet il World Food Programme, WFP, scrive invece che, da quando è iniziata la tregua, gli aiuti arrivano. Mostra video di convogli che portano cibo per sfamare milioni di persone, snocciola cifre. Questa settimana, twitta sempre il WFP, in Tigray è arrivato un convoglio di 308 camion con cibo sufficiente per altre 800.000 persone.
Nelle prossime settimane saranno organizzati convogli diretti verso le regioni Afar e Amhara. Di questi aiuti però il direttore dell’Oms non sa nulla. Come non ha mai saputo che durante il conflitto i camion portavano sì aiuti, ma di natura militare e destinati proprio ai miliziani Tplf e che tali camion spesso non tornavano proprio, utili per secondi usi.
Per terminare una buona notizia che arriva da Addis Abeba. Nella capitale, lo scorso 24 maggio, anniversario dell’indipendenza eritrea, moltissime persone hanno festeggiato in piazza, eritrei ed etiopici insieme, come nelle immagini dei primi abbracci dopo la pace tra i due Paesi.