Etiopia, dalla crisi umanitaria ai conflitti con il governo di Abiy Ahmed: che cosa c'è dietro le dimissioni della presidente Sahle Work-Zewde

In un contesto di scontri interni, il premier Abiy Ahmed chiede alla Presidente di rinunciare all’incarico prima della fine del mandato

di Marilena Dolce

Sahle Work Zewde passata Presidente Etiopia

Esteri

In Etiopia il premier Abiy Ahmed spinge alle dimissioni la presidente Sahle Work-Zewde

È di questi giorni la pubblicazione di un rapporto Reuters sull’Etiopia che, ancora una volta, denuncia il furto degli aiuti alimentari Usaid, US Agency for International Development. Sacchi di grano che, anziché raggiungere la popolazione affamata e stremata da anni di guerre interne, vanno a beneficio dell’esercito federale o, peggio ancora, alimentano il mercato nero. Una situazione già nota e denunciata nel 2021, quando a parlare dei furti di grano è il direttore di Usaid Etiopia che punta il dito contro il Tplf, Tigray People’s Liberation Front. Problema ignorato allora, che si ripresenta a marzo di quest’anno e poi adesso, con maggior risalto mediatico e l’indagine di Usaid e Wfp, World Food Programme, su chi abbia organizzato i furti. Inutile sottolineare che a pagare per corruzione, ruberie e incapacità è la gente più povera che vive nelle zone critiche, perché ora l’invio di aiuti è stato bloccato, in attesa di trovare i colpevoli. Questo il triste quadro generale di uno dei più grandi paesi africani, secondo dopo la Nigeria per numero di abitanti, oltre 110 milioni di persone di cui 20 sull’orlo della fame e 3 milioni costretti a rifugiarsi nei campi per sfollati.

Dopo il conflitto interno, iniziato nel 2020 e terminato nel 2022, tra governo federale e Tigray, la crisi economica ha sconvolto il paese, attraversato adesso da una gravissima inflazione che ha ridotto il potere d’acquisto della popolazione, rendendo insostenibile il costo della vita. Il Birr, la moneta ufficiale, non ha più valore, se non sostenuta dalle rimesse della diaspora. Tale condizione di fragilità è confermata da un recente rapporto dell’Undp, United Nations Development Programme e dell’Università di Oxford, che dice che in Etiopia il 72 per cento della popolazione vive in condizione di estrema povertà, mentre 86 milioni di abitanti su 120 lottano per la sopravvivenza. Autore del disastro economico e politico il premier Abiy Ahmed, fondatore del Partito della Prosperità, dal nome evocativo ma completamente scollegato dall’attuale realtà del paese, per nulla prospero.

Nel 2018, poco dopo il suo insediamento, Abiy ricompone la politica interrotta per lungo tempo con l’Eritrea, ristabilendo buone relazioni con il paese vicino. Una scelta che l’anno dopo gli vale il premio Nobel per la pace. Ma mai pace fu così insicura. Nel 2020 il Tplf, ex partito di governo, ispiratore di una politica interna basata sull’appartenenza etnica, attacca la nuova coalizione colpendo le basi militari del paese nel Tigray. Si aprono due anni di lotte sanguinose che provocano oltre cinquecentomila morti e la devastazione delle regioni coinvolte. Nel 2023 a Pretoria l’Etiopia firma un accordo di pace che, come si usa dire, è la toppa peggio del buco. Il premier Abiy sceglie la strada del compromesso con il Tplf, ex nemico, escludendo di fatto dalle trattative alleati interni ed esteri, cioè regione Amhara ed Eritrea.

Quanto promesso agli Amhara, che chiedevano il ripristino dei confini del proprio territorio, riportandolo alla situazione precedente all’arrivo al potere del Tplf, è rapidamente dimenticato. Una situazione che precipita in un nuovo sanguinoso conflitto interno, stavolta tra regione Amhara e Addis Abeba. Per questo gli amhara rinforzano le proprie milizie che di fatto diventano un esercito, i Fano, sostenuto dalla popolazione, 30 milioni di abitanti schierati contro i federali.

Comincia così, drammatico ma in sordina, il nuovo conflitto che, diversamente dal precedente è del tutto ignorato dalla stampa internazionale. Il governo federale con il proprio esercito, ENDF, Ethiopian National Defense Force, composto per l’80 per cento da soldati oromo e per il restante da soldati provenienti dalle regioni a sud del paese, dichiara lo stato d’emergenza nella regione Amhara. Una condizione che avrebbe dovuto essere temporanea e che invece si prorogherà ad oltranza. Chi, ancora una volta, paga un prezzo altissimo, è la popolazione Amhara, come precedentemente la gente del Tigray in balia del Tplf.

Le diverse associazioni per i diritti umani, compresa HRW, Human Rights Watch, denunciano l’attacco del governo Abiy parlando di crimini di guerra da parte dell’esercito federale, compreso l’uso dell’aviazione e di droni su obiettivi civili, persone, scuole, ospedali. Le aree sottoposte allo stato d’emergenza subiscono blackout, mancanza di internet e comunicazioni in genere. Una situazione che rende più difficile la testimonianza diretta e più semplice la censura, con parziale eccezione dei social che, in questi giorni, hanno pubblicato la notizia dell’arrivo nella regione Amhara di un osservatore internazionale, di cui per sicurezza non è stato rivelato il nome. Il dramma è tale che spinge anche i contadini a imbracciare le armi per difendersi, per difendere la propria casa, la famiglia, il raccolto altrimenti incendiato. Da quando vige lo stato d’emergenza, secondo HRW, gli attacchi dell’esercito ENDF, hanno devastato moltissime comunità agricole e villaggi, lasciando dietro di sé una scia di fuoco e distruzione che, per il momento, l’Occidente non vede.

In questo grave contesto di crisi umanitaria e politica, si colloca un altro tassello preoccupante, le dimissioni, o forse meglio dire, l’allontanamento, della presidente Sahle Work-Zewde. Il 7 ottobre la Presidente rimette il proprio mandato, senza nessuna eco della stampa interna, un modo per rimarcare la lontananza del premier. Il suo mandato sarebbe terminato a fine ottobre, quindi da molte parti si ipotizza che le dimissioni volutamente anticipate siano state chieste per evitare le insidie di un suo discorso ufficiale. Per non rischiare un’incrinatura nella narrativa di paese idilliaco, senza problemi, con molti parchi da inaugurare. La presidente Sahle Work-Zewde, prima donna a ricoprire la più alta carica politica, in questi anni avrebbe messo la sua esperienza in ambito diplomatico e internazionale al servizio dell’Etiopia, se solo avesse potuto. Se l’ostruzionismo del premier non lo avesse impedito.

Lei è una persona molto amata e rispettata nel paese, ammirata per la competenza e preparazione. “Il problema”, dice una donna etiopica che chiede l’anonimato, “è stato il conflitto con Abiy Ahmed, perché lei, durante le cerimonie pubbliche, invitata a parlare, metteva sempre l’accento sulla necessità della pace e della riconciliazione nazionale”. Il 5 ottobre sul proprio profilo X la Presidente ha citato il verso di una canzone amarica, “il silenzio è la mia risposta”, una risposta che però non è rimasta silenziosa, diventando presto virale. Aver messo a tacere la donna che ha ricoperto un ruolo simbolico, di solito riservato a politici maschi e di lungo corso, è la conferma del livello di repressione e della volontà del governo di soffocare le voci discordanti, persino quella della massima carica del Paese. Così mentre la crisi in Etiopia si aggrava, il silenzio della comunità internazionale e l’assenza di azioni concrete contro la violazione dei diritti umani, alimentano l’instabilità e l’incertezza della popolazione che vive un clima di conflitto e paura.

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