Israele, quello che la stampa non dice. Economia in crisi, bancarotta del porto di Eilat

Notizia, questa, rimasta intrappolata nelle robuste maglie della censura e che nessuno degli organi di stampa mainstream si è guardato bene dal dare

di M. Alessandra Filippi
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Esteri

Israele, economia in crisi dopo gli attacchi degli Houthi. Quello che la stampa non dice

Insieme alla condanna espressa dalla Corte Internazionale di Giustizia che ha dichiarato illegale l’occupazione dei Territori palestinesi e intimato lo sgombero dei coloni ebrei dalla Cisgiordania, ieri la notizia del giorno sul fronte israeliano è stata quella dell’attacco di un drone che a Tel Aviv ha colpito un palazzo uccidendo nel suo letto un uomo di 50 anni e ferendo almeno altre 10 persone colpite da schegge. Rivendicato dai ribelli sciiti dello Yemen, attraverso il portavoce degli Houthi Yahya Saree, la notizia ha fatto il giro del mondo e non c’è organo di stampa che non l’abbia ribattuta.

Il gruppo yemenita ha avvertito che “persisterà nel prendere di mira Israele fino a quando quest’ultimo continuerà il massacro di civili a Gaza, o almeno fino a quando non consentirà l’arrivo di aiuti umanitari sufficienti”. Sull’attacco, sferrato intorno alle 3 del mattino (alle 2 ora italiana), non ci sono molti dettagli. L'esercito israeliano ha affermato che il drone è stato identificato ma non intercettato, aggiungendo che le sirene non sono state attivate a causa di un errore umano.

Come quel drone sia riuscito a bucare la “Cupola di ferro”, altrimenti nota come “Iron-dome”, sarà compito dell’intelligence e dei militari scoprirlo. Il ministro della Difesa Yoav Gallant, invece di fare il beau geste di dimettersi, ha tuonato “Regoleremo i conti". Da par suo Netanyahu, al termine della lettura del dispositivo della Corte di Giustizia dell’Aia, indignato e lapidario ha dichiarato: "Il popolo ebraico non occupa la propria terra, né la nostra capitale eterna Gerusalemme".

Al di là della petulante arroganza, una domanda sorge spontanea: se i cittadini israeliani sono per lo più di origini russe, polacche, ucraine, con radici ultrasecolari nell’Europa dell’Est più che in Terra d’Oltremare, come fanno a rivendicare legami biblici e ancestrali con Palestina e Gerusalemme? Mistero della fede.

Una cosa è certa: l’ennesima falla, guarda caso a favore di telecamere, fa sorgere ben più di domanda, sia sulla natura dell’attacco, sia sul motivo per cui le difese non siano riuscite a intercettare il “bersaglio aereo”. Secondo Hareetz, la guerra di Israele si è appena “trasformata in un conflitto regionale e multi fronte”. In verità, a molti il conflitto sembra essersi allargato da tempo, anche a causa delle discutibili azioni di Israele e del suo Governo di estremisti, capeggiati da un Primo Ministro per il quale “finché c’è guerra c’è speranza”.

Da oltre nove mesi, per esempio, gli Houthi esprimono solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza e della Cisgiordania portando avanti una battaglia che sta mettendo a dura prova un segmento cruciale dei commerci e della logistica israeliana e non solo. Malgrado l’inferiorità numerica, di armamenti e potenza di fuoco, hanno dato parecchio filo da torcere a Israele e ai suoi alleati americani ed europei. Infatti, prima ancora di bucare la difesa aerea israeliana, gli Houti hanno riportato una serie di vittorie sul fronte del porto. Non ne parla quasi nessuno, eppure, grazie alle loro azioni di disturbo sul Mar Rosso, gli Houti hanno portato al collasso il porto di Eilat. Come ha scritto qualcuno, non sono riusciti a fermare il genocidio dei palestinesi, ma hanno messo in luce la bancarotta morale dell’Occidente e determinato l’arresto di un intero comparto commerciale.

Infatti, i ripetuti attacchi sferrati dallo stretto di Bab al-Mandeb contro il sud di Israele e le navi mercantili dirette a Eilat, iniziati lo scorso 19 ottobre, malgrado l’Europa abbia dato vita a una missione militare, la Eunavfor Aspedis, che affianca quella statunitense, la Prosperity guardian, hanno ridotto dell'85% sia le attività commerciali che i ricavi del porto di Eliat.

In particolare, hanno compromesso i suoi scambi con Cina, India, Corea del Sud, Singapore e altri paesi asiatici e del Golfo. Punto di congiunzione e passaggio fra il Golfo di Aden e il Mar Rosso, lo stretto è uno snodo marittimo cruciale. È stato calcolato che oltre il 12% del commercio globale, compresa la maggior parte delle esportazioni di petrolio e gas naturale dal Golfo, passa da lì, per un totale di 1.000 miliardi di dollari di scambi commerciali annui.

Prima del 7 ottobre era il terzo hub marittimo di Israele dopo Haifa e Ashdod, oggi è una landa desolata. Non fosse stato per il sostegno logistico e commerciale ricevuto da alcuni paesi della regione che attraverso i porti del Golfo di Dubai e Bahrein hanno continuato a rifornire Israele, l’impatto sarebbe stato ancora più devastante, e inevitabili i crolli di attività vitali, con balzi senza precedenti del costo della vita e dei beni di prima necessità.

La notizia della bancarotta del porto di Eilat è stata data lo scorso 7 luglio dall'amministratore delegato Gideon Golbert il quale, durante la sessione della commissione per gli affari economici della Knesset, ha comunicato che le attività commerciali nel porto si erano “completamente fermate”.

Notizia rimasta intrappolata nelle robuste maglie della censura e che nessuno degli organi di stampa mainstream si è guardato bene dal dare. Secondo Mustafa Abdulsalam, del Middle East Monitor, nei prossimi mesi rischiano di andare in bancarotta altri porti e strutture economiche e finanziarie, e questo perché la guerra e gli attacchi dal Mar Rosso hanno causato “la paralisi quasi completa delle attività economiche israeliane, compresi settori vitali come la tecnologia, l'informatica, gli investimenti diretti, l'edilizia e le costruzioni, il settore immobiliare, industrie, agricoltura, turismo interno e aviazione”.

Abdulsalam aggiunge inoltre che “Il fallimento potrebbe estendersi anche al settore finanziario e bancario alla luce dell’ondata di fuga di denaro e di ingenti depositi dai mercati e dalle banche dello Stato occupante, dalla fuga degli investitori stranieri, dall’aumento dei tassi dei crediti inesigibili e di quelli improbabili da rimborsare, e il calo dello shekel, delle riserve estere e delle entrate pubbliche dello Stato, soprattutto quelle fiscali”. E questo malgrado il flusso mastodontico di aiuti garantiti sia dal Governo americano, sia dalle comunità ebraiche, non solo statunitensi.

La controffensiva israeliana senza limiti etici e temporali in corso a Gaza è con ogni evidenza un danno enorme per l’economia israeliana. Secondo i dati della Banca d’Israele e del Ministero delle finanze, dal 7 ottobre fino alla fine di marzo 2024 il costo della guerra ha superato i 70 miliardi di shekel (73 miliardi di dollari). Il fallimento del porto di Eilat non è un dettaglio: è l’unico porto israeliano affacciato sul Mar Rosso, il portone attraverso il quale Israele commercia con Asia, Africa e alcuni paesi del Golfo. La sua paralisi e chiusura, anche se temporanea, rappresenta un danno considerevole. Qualcuno potrebbe obiettare che “questa è la guerra”: come ci sono morti e feriti sul campo, ci sono perdite sul fronte dei porti, dell’economia e della finanza.

Ma se a questi già ingenti danni aggiungi i costi dell’evacuazione di oltre 250.000 israeliani dagli insediamenti presenti nell’area denominata “Gaza Envelope” - quella compresa entro 7 chilometri dal confine con la Striscia di Gaza; delle famiglie evacuate dal deserto del Negev occidentale e quelle della fascia della Galilea al confine col Libano; il tutto unito al pagamento degli stipendi dei circa 360.000 riservisti che hanno lasciato il loro lavoro civile, i danni collaterali per Israele iniziano a farsi sempre più pesanti. Che dire poi del costo delle perdite subite dalle strutture economiche, dagli interessi commerciali e dalle piccole e medie imprese che stanno vivendo una grave recessione a causa del fatto che tutte le risorse e i budget governativi sono stati stanziati e utilizzati solo per la guerra?

Da mesi decine di migliaia di cittadini israeliani sono scesi in strada e chiedono le dimissioni di Netanyahu e dei suoi fedelissimi. Ma sono pochi, troppo pochi rispetto alla maggioranza della popolazione saldamente schierata col Governo. A Gaza Israele ha insterilito ogni forma di vita, sterminato decine di migliaia di innocenti e reso inabitabile per i prossimi cento anni la Striscia. Tuttavia, come nella leggenda biblica di Sansone, nella sua furia cieca sta uccidendo anche sé stesso: scuole, università, strutture economiche, turismo, ristoranti, bar e i luoghi di intrattenimento sono travolti dalla guerra. Non sono fisicamente distrutti come quelli palestinesi, ma sono deserti, molti chiusi, altri falliti. E se il conflitto si allarga e l’occupazione prosegue, per Israele potrà solo andare di male in peggio.

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