Italia atlantista? Sì, ma non anti cinese. Draghi non può mollare Pechino
Il premier ha rilanciato l'atlantismo. Ma non potrà chiudere i rapporti con la Cina e cerca un pragmatismo merkeliano. Uscire dalla Via della Seta non conviene
Un lupo grigio, seduto di fianco all'aquila americana, che protende le mani con un senso a metà tra spavento e diniego. Viene rappresentata così l'Italia nella vignetta sul G7 diventata virale sui media cinesi. L'Italia viene dunque percepita come riluttante a seguire la crociata anti cinese lanciata dagli Stati Uniti di Joe Biden. D'altronde, ricorda il tabloid di Stato Global Times, l'Italia è l'unico paese del G7 a essere entrato nella Belt and Road Initiative (o Via della Seta, nella sua versione più romantica e rassicurante).
Tra G7 e Nato, Draghi rilancia l'atlantismo dell'Italia
Eppure, tra G7 in Cornovaglia e vertice Nato a Bruxelles, il premier Mario Draghi ha riaffermato con forza l'anima atlantista della politica estera italiana, usando parole di veemenza sconosciuta a queste latitudini (quantomeno tra chi sta a Palazzo Chigi) nei confronti di Pechino. "Il tema politico dominante è stato quale atteggiamento debba avere il G7 nei confronti della Cina e in generale di tutte le autocrazie, che usano la disinformazione, i social media, fermano gli aerei in volo, rapiscono, uccidono, non rispettano i diritti umani, usano il lavoro forzato", ha detto Draghi a margine del G7. "Tutti questi temi di risentimento nei confronti delle autocrazie sono stati toccati e condivisi. In questo senso è stato un vertice realistico: c'era contentezza per l'economia ma non si sono persi di vista i problemi". Elogiando poi, anche al vertice Nato, la ricostruzione delle alleanze operata da Joe Biden.
Draghi: "Esamineremo l'accordo sulla Via della Seta"
Non solo. Draghi ha anche aperto alla possibilità di "esaminare" il memorandum of understanding firmato il 23 marzo 2019 dall'allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio con il quale l'Italia è entrata a far parte del progetto a guida cinese. "Lo esamineremo con attenzione", ha detto Draghi, il quale ha però sottolineato che l'argomento non fosse mai stato toccato in questi giorni nelle discussioni con Biden.
La svolta del governo Draghi sulla Cina
Ma non c'è dubbio che il governo Draghi abbia dato una svolta sulla politica estera italiana, in particolare raffreddando i legami con la Cina proseguendo la retromarcia già iniziata durante il Conte bis. Lo ha fatto estendendo l'utilizzo del golden power dal 5G (frenando i colossi di Pechino nella costruzione delle infrastrutture di rete) ai semiconduttori, con il caso dell'azienda di Baranzate (provincia di Milano) al quale è stata impedita la cessione di una sua parte a un'entità cinese. Fino ai furgoni di Iveco, che si è rivolta altrove quando ha capito l'aria che tirava politicamente.
Ma attenzione: Draghi non è anti cinese
Eppure, la linea di Draghi sulla Cina è molto più sfumata di quanto non si racconti a livello ufficiale. Il presidente del consiglio non è anti cinese, come qualcuno vorrebbe etichettarlo. E' soprattutto pragmatico, come la collega Angela Merkel. Draghi sa benissimo che l'Italia e l'Europa non possono fare a meno della Cina a livello economico. Troppo vasto, troppo pesante un mercato interno che nel giro di pochi anni effettuerà lo storico sorpasso sugli Stati Uniti. Troppo importanti anche gli investimenti di Pechino all'estero, seppure questi abbiano subito un freno dopo il lancio della "doppia circolazione" da parte di Xi Jinping prima del V Plenum del Partito comunista cinese dello scorso ottobre. Per questo l'obiettivo di Draghi, così come quello di Merkel e Macron, è di mantenere un doppio binario nei rapporti con la Cina: da una parte la partnership commerciale, dall'altra parte il rigore diplomatico e sul tema dei diritti. Un po' come da anni fanno paesi asiatici come Giappone e Corea del Sud.
I rapporti economici Italia-Cina
Prendiamo qualche dato. Nei primi cinque mesi del 2021 l'interscambio commerciale tra Italia e Cina è aumentato del 50%, con le esportazioni italiane in Cina aumentate di quasi il 75%. Esportazioni che hanno riguardato principalmente macchinari e apparecchiature (3,8 miliardi di euro, 29% del totale), prodotti chimici (1,1 miliardi di euro, 9% del totale) e prodotti farmaceutici (1 miliardi di euro, 8% del totale). Il maggior incremento ha riguardato i prodotti metallurgici (+253 milioni di euro, +106%), i prodotti chimici (+207 milioni di euro, +22%) e i prodotti alimentari (+117 milioni, +46%). Per non parlare della presenza cinese in Italia, radicata da tempo a livello di interessi economici e finanziari. Per quanto riguarda i flussi di capitali tra Italia e Cina, in base ai dati più recenti di Banca d’Italia, aggiornati al 2019, il totale degli investimenti cinesi in Italia sono quasi decuplicati in 5 anni, dai 573 milioni di euro nel 2015 ai 4,7 miliardi di euro del 2019.
Gli investimenti cinesi in Italia
"Analizzando il range delle acquisizioni verso l’Italia si comprende che gli investitori cinesi, spesso controllati dallo Stato" spiega Lorenzo Riccardi, economista della Shanghai University, "hanno un focus su tecnologia, marchi con presenza globale, energia e altri settori strategici, con quote di controllo o influenza significativa (Pirelli, CDP Reti, Ansaldo). Negli anni recenti inoltre sono noti gli investimenti cinesi nel mondo del calcio (Inter), della moda e del lusso (Krizia, Ferretti, Moncler, Ferragamo), nel manifatturiero (Candy). Sono da considerare anche le partecipazioni minoritarie nei principali gruppi italiani quotati, quali gli investimenti della People’s Bank of China in ENI, TIM, Intesa San Paolo, Saipem e Prysmian, e del Silk Road Fund in Autostrade), insieme alle più recenti notizie dell’investimento da un miliardo di euro pianificato da Faw in Emilia Romagna per la realizzazione di un polo all’avanguardia per la produzione di supercar", conclude Riccardi.
Uscire dalla Via della Seta? Non conviene
Per quanto riguarda la Via della Seta, non si può concludere frettolosamente che le parole di Draghi significano che l'Italia uscirà dal progetto. Per una serie di motivi: innanzitutto perché non si tratta di un trattato vincolante e poi perché uscirne potrebbe portare a delle rappresaglie economiche da parte della Repubblica Popolare, come sta già accadendo con l'Australia. Più semplice, semmai, restare dentro e non dare seguito agli abboccamenti nei settori strategici e tenere pubblicamente una linea di rigore.