L’eco maoista nella strategia di potenza della Cina di Xi
Per il Dragone cinese il vantaggio è stato il combinato disposto della crescita sua (sebbene rallentata) con la decrescita nostra
Bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima: ce lo insegna la Letteratura, certo, e ce lo insegna quella straordinaria storia vera che è la Storia, con la “S” maiuscola. Perché se è vero che essa non si ripete mai per identità perfette, è altrettanto chiaro come la consecutio temporum degli accadimenti preveda comunque corsi e ricorsi, repentine virate e altrettanto subitanee inversioni a u. Dove le rivoluzioni, molto spesso, rivoluzionano la rivoluzione precedente, salvo poi auto-rivoluzionarsi a loro volta con un occhio amarcord al passato.
Il mondo sta cambiando, il Covid lo ha cambiato, segnando uno spartiacque nel modo stesso di concepire la società, i suoi ritmi e le dinamiche economiche che la attraversano. Senonché oggi, quando il contenimento del contagio concede finalmente il lusso di poter parlare di rimbalzo economico, l’euforia e l’uscita dal tunnel tendono forse a far dimenticare un dettaglio: il differenziale. In profondo rosso per le potenze occidentali, atterrate da una pandemia e da un pandemonio che ci hanno colti impreparati (e soprattutto divisi); positivo invece per il Dragone cinese, il cui vantaggio è stato il combinato disposto della crescita sua (sebbene rallentata) con la decrescita nostra (come abbiamo detto, in redshift spinto).
Insomma, sorge spontaneo un quesito: siamo cambiati solo noi? Non esattamente: anche la Cina, nonostante – e anzi, forse proprio “a causa” – dei propri parametri macroeconomici sta andando incontro a una rivoluzione, culturale in primis, che non si vedeva dai tempi delle riforme e dell’apertura al mondo operata da Deng Xiaoping nel 1978.
Quali riflussi si agitano nel ventre pingue del Dragone, famelico di Occidente al punto da farne quasi indigestione? Lo dicono gli opinionisti cinesi di più accanita matrice sinistrorsa, i nostalgici della Grande Rivoluzione Proletaria di Mao Zedong la quale, correva l’anno 1966, lasciò però inermi sul campo di battaglia oltre un milione di morti. Oltre a congelare l’economia del Paese in un’altrettanto cadaverica immobilità, per il resto della decade. Tra queste voci, Li Guangman, per il quale “un cambiamento monumentale sta avendo luogo in Cina, dove le sfere economiche, finanziarie, culturali e politiche sono soggetto (e oggetto) di profonde spinte rivoluzionarie”. E non mancano gli incitamenti altisonanti, finanche epici: “è il ritorno allo spirito rivoluzionario, all’eroismo, al coraggio e alla rivendicazione dei Diritti” (alla faccia dei Diritti, stante il funereo computo riportato poc’anzi).
Eppure, non è solo la Gauche mandarina a caldeggiare in qualche modo un ritorno all’ancien regime: anche il leader maximo Xi Jimping (che fu Lui stesso, insieme al Padre, testimone dell’oltranzismo maoista) muove in questa direzione in maniera tutt’altro che sibillina. E da Imperatore indossa i suoi vestiti nuovi.
Certo come testimoniano diversi autorevoli Osservatori internazionali, fra cui il Professor Ming Xia della City University di New York, “Xi non ha interesse nel far fuoriuscire e deflagrare lo spirito della rivoluzione popolare, non è un rivoluzionario come Mao”. Infatti il suo modus operandi sembra piuttosto quello di uno stravolgimento su piccola scala che, allargandosi a cerchi concentrici, arrivi a infiltrare tutti i gangli della società: in maniera forse surrettizia ma non meno pervasiva.
In questo senso, la dipendenza cieca e totale dallo Stato (e dal suo leader) delinea senza dubbio il miglior collante per tenere insieme una società (e soprattutto il potere su di essa) che le derive monadistiche del modello filo-occidentale – vedasi per esempio il culto della ricchezza – possono comportare. In pratica è più facile controllare una società senza picchi, o con picchi numericamente contenuti, dove il valor-medio (minimo comune multiplo o, in questo caso, massimo comun divisore) accomuni la più parte della popolazione in una sorta di standard condiviso, ed ergo accettato.
Da qui la crociata di Xi Jimping contro i capitalisti cinesi, singoli e società, colpevoli (indipendentemente dalle modalità più o meno lecite attraverso le quali tale ricchezza sarebbe stata prodotta) di alterare il quadro alla Robin-Hood della “prosperità comune”. Manifesto di tale campagna sono le dichiarazioni rilasciate da Xi lo scorso 17 Agosto, allorquando i burocrati del Comitato per gli Affari Finanziari ed Economici (Comitato, elemento non trascurabile, di sua diretta emanazione) sono stati invitati ad avviare e rincrudire azioni di controllo nei confronti dei redditi più elevati. Tra i primi a cadere invischiati nelle maglie dell’apparato statale, la popolarissima Attrice Zheng Shuang (accusata di aver sottratto al Fisco oltre 46 milioni di dollari) e i giganti dell’e-commerce, Alibaba e il competitor Tencent, chiamati a versare oltre 15,5 miliardi di dollari per la causa della prosperità comune.
“Questo segna il ritorno alle aspirazioni iniziali del Partito”, scrive ancora Li Guangman: “il mercato dei capitali non rimarrà a lungo un paradiso per la voglia dei Capitalisti di diventare sempre più ricchi, nè il mercato culturale sarà ancora un eden per coloro i quali adorano la cultura occidentale”. Con il Presidente Xi, in questo, impegnato però a cercare “alleati”, ancorché sui generis: alleati mutuati direttamente tra le fila del nemico, quali appunto nemici di secondo grado, perchè sintonicamente avversi a un nemico (di primo grado) comune. Per questo, sostiene Ren Ye, popolare Commentatore patriottico cinese, Xi guarda – o meglio, occhieggia – al populismo economico che negli U.S.A. viene portato avanti da Democratici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.
Cui prodest tutto ciò? Livellare abbiamo detto, ammansire le masse, anche attraverso una pericolosa stretta sui divertimenti e lo svago che, per certi e poi neanche troppo adombri tratti, ricorda l’estromissione della musica dalla triste quotidianità integrata dai Talebani nel nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan. “Le politiche occidentali”, scrive ancora Ren Ye a proposito del nuovo corso a Pechino, “concernono il conflitto fra individui e Governo, le nostre politiche invece si occupano del conflitto fra gruppi di interesse e interesse pubblico”.
La variabile aleatoria in gioco è il fattore tempo. Quanto in fretta attecchirà l’eco maoista della nuova strategia di potenza di Xi-Jimping? Atteso, va detto, come per Lui il tempo rivesta comunque una cogenza politicamente relativa, essendosi di fatto candidato – con l’abolizione del limite dei due mandati – alla Presidenza perpetua del Partito e dello Stato. La “Pax Comunista” finora ha garantito solo sue transizioni pacifiche (almeno per quanto concerne la mobilitazione militare): quella fra Jiang Zemin e Hu Jintao nel 2002 e quella fra Hu e Xi dieci anni dopo. Come sarà, quando sarà, la prossima? E soprattutto, con quali effetti sull’Occidente?
Ai posteri l'ardua sentenza. Il problema è che qui, i posteri, siamo già noi.