Netanyahu conosce solo la rabbia. Il baratro ci porta all’Armageddon

Israele tiene sotto scacco gli Usa

di M. Alessandra Filippi
Esteri

Prove tecniche di distruzione

Ostinarsi a chiedere a Netanyahu di usare moderazione nelle sue reazioni e non reagire è come ordinare a un cane con la rabbia di sedersi. È semplicemente insensato.

È noto a tutti che nei sotterranei dell’animo umano si annida, tra gli altri sentimenti, la rabbia. Se non compresa e repressa, “può letteralmente rovinare la vita alle persone, sia a chi la vive, sia soprattutto a chi la subisce ed è costretto a misurarsi con chi la esprime in maniera disfunzionale”.

Fra i primi a dar forma questo fenomeno c’è Freud. A cavallo degli anni Venti e Trenta del Novecento, al culmine della sua ricerca sull’inconscio, Sigmund ha un’intuizione: quella di leggere le dinamiche della società attraverso il prisma delle categorie psicoanalitiche elaborate nei precedenti trent'anni di ricerca. Delinea così “una concezione del vivere comune come sistema che, originato dalla condivisa necessità di contrastare le minacce alla sopravvivenza umana, finisce inevitabilmente per porre limiti importanti alle pulsioni naturali del singolo”.

Da quella intuizione nasce “Il disagio di una civiltà”, un saggio nel quale Freud ipotizza che “l'evolversi e articolarsi della civiltà è come un processo di erosione della felicità e delle libertà individuali”. Pubblicato nel 1930, prima in tedesco e poi in inglese, questo breve ma incisivo saggio resta, oggi più che mai, non solo un lucido ritratto di un'epoca destinata a chiudersi nella morsa feroce e letale del nazismo e del fascismo, ma anche un valido supporto per leggere il nostro presente, sempre più pervaso da inquietudini psicopatologiche private e collettive, nelle quali risuona come una campana a morto l’avvertimento che Freud semina fra le righe del suo libro, ovvero che «La libertà non è un beneficio della cultura: era più grande prima di qualsiasi cultura, e ha subito restrizioni con l'evolversi della civiltà.». E ne subirà sempre di più, a una velocità mai conosciuta prima.

È dunque sul sempre più instabile e tesissimo equilibrio fra necessità confliggenti ma ugualmente ineludibili che si gioca il futuro dell'umanità. E noi questo futuro ce lo stiamo giocando danzando come imbecilli sul baratro che ci porta dritti dritti all’Armageddon. Un giudizio finale per lo più scatenato e provocato da una nazione geograficamente non più grande dell’Emilia Romagna. L’unica ad avere sparse per il globo ramificazioni che contano quanto, se non di più, dei suoi confini geografici. Confini espansi grazie a ruberie, abusi, soprusi, violazioni del diritto internazionale, violazioni di dispositivi, accordi, risoluzioni vincolanti. E, dulcis in fundo, grazie allo sterminio lento e inesorabile dei nativi palestinesi, da 80 anni soggetti alla più crudele e silenziosa delle epurazioni etniche, diventata dal 7 ottobre il primo genocidio in diretta streaming consumato nella storia dell’Umanità.

Per decenni ci hanno raccontato che Israele era l’unica democrazia del Medio Oriente. Un baluardo del civile mondo occidentale nell’area più instabile della terra.

Ora sappiamo, con certezza, che non solo non è vero, ma che Israele è il 51 stato degli Stati Uniti e che senza tanti “forse” grazie alla sua tentacolare presa economica tiene sotto scacco gli USA e il resto del mondo occidentale. Compresi alcuni paesi arabi del golfo, in testa ai quali spicca per servilismo la Giordania.

Il vero volto di Israele e del suo governo di estremisti posseduti come i loro antichi persecutori e carnefici dal demone del razzismo e della rabbia più sadica e cieca è quello del sorriso stampato permanentemente sul volto di Netanyahu. Un ghigno rivelatore di un animo violento degna del più sanguinario dei dittatori.

Come spiega con icastica sintesi il filosofo e antropologo Giancarlo Vianello, esperto di storia islamica e dinamiche transculturali, “Il genocidio in corso a Gaza ha portato allo scoperto dinamiche rimaste forzosamente sottotraccia per quasi un secolo”. Vianello prosegue affermando che questo disvelamento traumatico della rabbia ha messo in luce, mostrandola senza mezze misure, “la natura feroce e razzista di Israele, portando allo scoperto due linee di faglia che caratterizzano quella che papa Francesco ha per primo definito la Grande guerra a pezzi. Una è rappresentata dall´insorgere di tutte quelle nazioni che vogliono un mondo multipolare, affrancato dal potere di chi si autodefinisce “democrazia”, quando invece esplica una natura fondamentalmente post-coloniale. L’altra è la frattura netta creatasi tra i palazzi del potere e le piazze, che ha generato una contrapposizione netta fra le opinioni pubbliche e i centri di potere, che a loro volta controllano la politica e i media”.

Il fatto che la maggioranza delle persone che protestano contro il genocidio in corso a Gaza e in Cisgiordania sia soprattutto composta da giovani, informati e decisi, è motivo di speranza in questi tempi bui. Quella di poter almeno contrastare la folle corsa verso la catastrofe che si va profilando all’orizzonte.

 

Nella foto: Pietà, di @Mohammed Salem

Inas Abu Maamar, 36 anni, stringe il corpo della nipote Saly, di cinque anni, uccisa insieme a quattro familiari da un missile israeliano che ha colpito la loro casa a Khan Yunis. La foto è stata scattata il 17 ottobre 2023 all’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud di Gaza, dove le famiglie erano alla ricerca dei parenti uccisi durante il bombardamento israeliano dell’enclave palestinese.

Scattata dal fotografo @Mohammed Salem, ieri è stata premiata come foto dell’anno nella 67ª edizione del World Press Photo, il più importante premio fotogiornalistico del mondo.

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