Netanyahu, il primo leader democratico che finisce alla sbarra

Qualunque sarà la decisione finale la Corte Penale Internazionale ha già conquistato almeno due buone ragioni per entrare nella storia

di M. Alessandra Filippi
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Benjamin Netanyahu
Esteri

Corte Penale, la scelta di Khan sul mandato di arresto per Netanyahu

L’annuncio fatto ieri dal procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Ahmad Khan, ovvero la richiesta di mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa Yoav Gallant, unitamente a quelli per i tre per i capi di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri e Ismail Haniyeh, qualunque sarà la decisione finale che verrà presa dai 3 giudici ai quale adesso spetta adesso il compito di decidere, ha già conquistato almeno 2 buone ragioni per entrare nella storia e nei Guiness dei primati.

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La Corte Penale ha già emesso mandati di arresto verso esponenti politici. L’ultimo a far scalpore è stato quello richiesto nel marzo 2023 contro il presidente russo Vladimir Putin, due generali russi e la presidente di una commissione governativa russa per la deportazione illecita in Russia di bambini ucraini, catturati nelle zone occupate da Mosca. Alla storia passò anche quello emesso contro Gheddafi. Meno noti alle nostre latitudini sono quelli spiccati contro Joseph Rao Kony, temuto e temibile militante e signore della guerra ugandese, o quello dell’ex presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashīr. Il comun denominatore di tutti è sempre stato che i mandati venivano emessi contro figure controverse, spesso a capo di stati dittatoriali antidemocratici. Ora, il primo storico primato, eclatante tanto quanto il lungo macabro elenco di ovvi, quanto infamanti, crimini che tutti gli accusati hanno collezionato, è rappresentato dal fatto che è la prima volta nella storia che un simile provvedimento viene richiesto nei confronti di leader appartenenti a una democrazia di tipo occidentale, quale quella di Israele viene considerata.

Fermo restando che lo Stato ebraico non è un membro della Corte Penale e non ha ratificato lo Statuto di Roma, e che dunque i margini di azione della Corte sono scarsi, resta il fatto che sia Netanyahu che Gallant se mettono piede in uno dei 124 stati che nel mondo la riconoscono, sono ad alto rischio di arresto. Cioè, andrebbe a sentimento della Nazione, ove sbarcassero per qualunque motivo, il fatto di venire ben accolti oppure messi in manette.

Il secondo buon motivo per entrare nella storia e nei Guinness è dovuto al fatto che la decisione di Khan, per la prima volta in questi ultimi decenni, ha messo d’accordo l’una e l’altra parte. Entrambi, infatti, l’hanno condannata. Israele afferma che la richiesta è un “crimine di proporzioni storiche”; Hamas sostiene che i mandati “equiparano le vittime al carnefice”. E questo malgrado tutti gli indicatori lascino pensare che la decisione sia stata presa a ragion veduta e con coraggio, tirando dritto anche davanti alle minacce arrivate da oltre oceano.

La Corte Penale Internazionale è nata come strumento dell’Occidente per colpire e processare gli altri; e oltre a quelli già ricordati non vanno dimenticati i mandati di arresto nei confronti dei “boia dell’ex Jugoslavia”, Milosevic, Karadzic e Mladic. Ora, grazie al coraggio del Sudafrica che, ribellandosi alle pressioni provenienti degli Stai Uniti, ha intentato la causa nei confronti dello stato di Israele preso la Corte internazionale di Giustizia, il fronte di difesa di Israele ha iniziato a scricchiolare. Come hanno fatto notare molti analisti e osservatori, l'annuncio di ieri rappresenta per lo Stato ebraico la più clamorosa e indelebile battuta d'arresto diplomatica degli ultimi dieci anni. E arriva mentre il Paese arranca nel disperato, quanto vano, tentativo di proteggere la propria reputazione internazionale, travolta e sommersa dalla devastante condotta di guerra tenuta a Gaza. E malgrado il presidente Biden lo stia difendendo come una madre farebbe con un figlio assassino del quale non vuole riconoscere i crimini.

Di fronte all’enormità del genocidio in corso a Gaza, il procuratore generale Khan si è trovato in una situazione molto difficile e per nulla confortevole. Se non avesse proceduto contro Netanyahu e Gallant avrebbe dimostrato tutta la sua faziosità e l’inutilità dell’organo di cui fa parte. Resistendo invece a pressioni e minacce, talvolta anche molto gravi, come quelle fatte dai 12 senatori americani che lo scorso 7 maggio, in una lettera intimidatoria, lo hanno minacciato di “dure sanzioni” e di “prendere di mira lui e la Corte penale” qualora fosse stato emesso l’ordine d’arresto per Netanyahu, ha avuto un sussulto di dignità e orgoglio incriminando tutti: sia Netanyahu e Gallant, che i tre per i capi di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri e Ismail Haniyeh. Così facendo ha riportando al centro il Diritto e svelato le ipocrisie che pervadono l’Occidente.

La questione adesso si fa dirompente perché ci sono Paesi come Francia, Spagna e Belgio che si sono subito schierati a favore della scelta di Khan, definendola non solo giusta ma dichiarando che faranno tutto il possibile per supportarla. Una posizione che apre un’ulteriore profonda crepa nel granitico muro di protezione di Israele. Netanyahu sta trascinando il Paese verso una catastrofe dalla quale si potrà salvare solo attuando una rapida e decisa inversione delle sue politiche fanaticamente espansioniste e discriminatorie, recuperando la sua anima e le sue radici. Come diceva saggiamente qualche anno fa il compianto Rabbino Giuseppe Laras: “Ricordare vuol dire attualizzare il passato. E lo si può fare con diversi intenti. Si può cercare di attualizzare il passato per odiare. Ma si può anche attualizzare il passato per costruire. E io credo che sia questo il senso della memoria. Una memoria dinamica e non statica, che si muove verso il futuro”.

Per costruirlo invece di distruggerlo.