Pechino attacca Taiwan? Così scoppia la terza guerra mondiale. Oltre alla tragedia umanitaria, a rischio anche i preziosissimi chip

Un'interruzione delle forniture paralizzerebbe tutto il globo. Parla Giuliano Noci, prorettore al Politecnico di Milano

di Rosa Nasti
Esteri

Cina-Taiwan: esercitazioni o preparativi per la guerra? Il prorettore al Policlinico di Milano: "Un'escalation avrebbe conseguenze disastrose per i Paesi che dipendono dai semiconduttori"

Nuove manovre militari cinesi intorno a Taiwan. Jet e navi da guerra circondano l'isola per la seconda volta in meno di cinque mesi, proprio dopo il discorso di Lai Ching-te, il presidente taiwanese che ha ribadito con assoluta fermezza l'assoluta indipendenza e il rifiuto di qualsiasi sottomissione a Pechino. Da una parte la Cina, con la sua tradizionale "politica di una sola Cina", vede Taiwan come una provincia ribelle da riunificare, anche con la forza se necessario. Dall'altro gli Stati Uniti hanno definito le mosse cinesi "ingiustificate" e ribadito che il loro sostegno a Taiwan non verrà meno.

Tuttavia, in un'ottica più ampia, la questione va oltre la singola crisi tra Pechino e Taipei. Se guardiamo alle tensioni globali, il vero terreno di scontro della prossima guerra mondiale sembra delinearsi chiaramente: l'Asia-Pacifico. Questo spiega l’approccio cauto di Pechino sia verso il conflitto tra Israele e i suoi nemici sia verso la guerra tra Russia e Ucraina, che continua a destabilizzare l'Europa. Ma perché proprio l'Asia e, in particolare, Taiwan? Affaritaliani.it ne ha parlato con Giuliano Noci, prorettore del Polo Territoriale Cinese al Politecnico di Milano ed esperto di intelligenza artificiale. 

Professore, la Cina ha schierato aerei da combattimento e navi da guerra attorno a Taiwan, definendo queste operazioni semplici "esercitazioni". Ma cosa si nasconde dietro queste manovre? Si tratta solo di "avvertimenti" o siamo di fronte a una potenziale escalation?

Quest'esercitazione è una reazione diretta al discorso del presidente taiwanese Lai Ching-te, che ha chiaramente affermato di non voler allinearsi a Pechino. È una risposta prevedibile, quasi un riflesso automatico: la Cina non può tollerare dichiarazioni simili da parte di Taiwan. La popolazione cinese è profondamente nazionalista e vede Taiwan come parte integrante della Cina. Questo è il contesto di fondo.

Dobbiamo però fare alcune ulteriori considerazioni. Innanzitutto, la Cina sta attraversando un momento di forte debolezza economica. C'è pessimismo tra la popolazione riguardo al futuro, e ciò spinge il governo a cercare un nemico esterno per unire il Paese. Un aspetto interessante di questa operazione è che, per la prima volta, l'intera isola di Taiwan è stata circondata: la Cina ha occupato tutti i quattro lati, mandando un messaggio chiaro a Taiwan: che Pechino può strangolarla economicamente, più che militarmente. Non a caso, un militare taiwanese ha definito questa tattica la "strategia dell'anaconda". In sostanza, la Cina non permetterà a Taiwan alcuna deviazione, ma è improbabile che si muova militarmente nell'immediato futuro, consapevole della complessità di una tale operazione. È più probabile che prosegua con un soffocamento economico.

Tutto questo si inserisce in un quadro globale di tensioni diffuse. Gli Stati Uniti sono in un momento di estrema debolezza, e quando tutte le grandi potenze – Cina, Russia, Stati Uniti, Europa – sono deboli, il caos prende il sopravvento. Questa è la vera preoccupazione: l'assenza di un attore capace di ristabilire ordine, lasciando la situazione a rischio di un deterioramento irreversibile.

Se Pechino continuerà ad alzare il tiro, come reagiranno gli Usa? La Terza guerra mondiale è davvero una possibilità concreta o pura fantascienza?

Non è affatto fantascienza. Recentemente, un testo del professor Zheng Yongnian, uno dei principali geopolitici cinesi e molto vicino a Xi Jinping, ha fatto il giro del mondo. Nel suo saggio "La Terza guerra mondiale e la polveriera asiatica", Zheng sostiene che, se ci sarà una Terza guerra mondiale, avrà origine in Asia. E ha ragione. Taiwan è il principale innesco potenziale: una situazione che potrebbe essere paragonata alla "pistola di Sarajevo". Non dimentichiamo che Taiwan è cruciale per la Cina non solo per ragioni storiche e territoriali, ma anche per la sua importanza economica: produce l'80% dei semiconduttori mondiali, rendendola un obiettivo strategico globale.

Quale potrebbe essere il margine di manovra dell’Italia nel promuovere una de-escalation diplomatica, considerando la sua forte dipendenza energetica dal Medio Oriente e la sua necessità di tecnologie green e chip, di cui Taiwan è il principale fornitore?

L’Italia, così come l’Europa, non tocca palla. Siamo marginali, quasi irrilevanti a livello globale, e l’Europa è del tutto assente in questi scenari. Dobbiamo essere realisti: non abbiamo né la forza né la capacità di giocare un ruolo significativo in una possibile de-escalation, nonostante le nostre dipendenze energetiche e tecnologiche.

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Considerando la dipendenza globale dai chip prodotti a Taiwan, come potrebbe un'escalation del conflitto impattare sui paesi che si affidano pesantemente a questa risorsa, specialmente alla luce dello sviluppo dell'intelligenza artificiale? Il mondo intero ne risentirebbe?

Un'escalation avrebbe conseguenze disastrose, soprattutto per quei paesi che dipendono dai semiconduttori taiwanesi. Taiwan produce l'80% dei chip avanzati, vitali non solo per i dispositivi tecnologici, ma anche per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un'interruzione della fornitura colpirebbe duramente ogni settore economico, dal digitale all’automobilistico. Tuttavia, la Cina sta correndo ai ripari: come ha fatto con l'auto elettrica, sta investendo massicciamente per sviluppare una propria capacità di produrre chip autonomamente, puntando su tecnologie come i chip fotonici. Non è ancora autonoma, ma potrebbe diventarlo presto. L'Europa, invece, è molto più esposta. Investe 20 volte meno degli Usa in tecnologie avanzate e ben 50 volte meno in intelligenza artificiale. Non ha una propria capacità di produzione di chip e, se non si muove rapidamente, rischia di trovarsi in una posizione estremamente vulnerabile.

La Cina può davvero mantenere la sua neutralità strategica mentre la stabilità del Medio Oriente vacilla e i suoi approvvigionamenti energetici sono a rischio?

La Cina sta giocando una partita complessa. Da un lato, fa parte di una sorta di "banda dei quattro" con Corea del Nord, Iran e Russia, compattandosi sempre più in opposizione all'Occidente. La sua strategia è quella di affermarsi come superpotenza, al pari degli Stati Uniti, e per farlo esercita la sua influenza su una serie di paesi, specialmente in Medio Oriente. Le tensioni in quella regione, infatti, giocano a favore della Cina, poiché minano la legittimità del potere americano, dimostrando che gli Stati Uniti hanno sempre meno controllo. La Cina guarda con interesse alle mosse dell'Iran, ma non può permettersi che la situazione vada oltre un certo limite.

La debolezza economica interna di Pechino rende ancora fondamentale per il paese mantenere le esportazioni verso l'Occidente. Per questo motivo, mentre da un lato strizza l'occhio all'Iran e agli altri interlocutori della regione, dall'altro non le conviene spingere troppo oltre. Il fatto che i prezzi dell'energia non stiano aumentando significativamente è un segnale: la Cina non sta richiedendo grandi quantità di petrolio proprio perché la sua economia interna è fragile. Sarà cruciale osservare come Pechino manovrerà in questo contesto, ma una cosa è certa: non rivelerà le sue vere intenzioni finché non sarà sicura che le sue mosse giocheranno a suo favore.

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