Stati Uniti in crisi, il "controllo" del mondo ormai è perso. E ora la guerra a Gaza ha più l'aria di un genocidio
La crisi scatenata dalle linee di attrito che stanno definendo la nostra epoca offre lo spunto per ripensare e correggere l’attuale scenario, bellicoso, polarizzato e dai contorni sempre più preoccupanti
Donald Trump
L'evidente declino degli Stati Uniti e la sconcertante escalation in Medio Oriente, nuove linee di faglia
Nell’antica Cina si estraevano presagi bruciando gusci di tartaruga e osservando le screpolature prodotte, che non indicavano il futuro che è inconoscibile, ma rappresentavano le linee di forza del momento cosmico, all’interno delle quali si celavano i semi che si sarebbero sviluppati nel futuro. In maniera analoga nell’attuale situazione di crisi sarebbe opportuno che venissero osservate e meditate le linee di faglia che si stanno determinando. Tale operazione non si presenta semplice, a causa del groviglio di aspetti che si sono stratificati. Cerchiamo almeno di cogliere le più evidenti.
La più profonda tra le linee di attrito che stanno definendo la nostra epoca è senza dubbio il declino dell’egemonia americana sul mondo – e di questo hanno coscienza anche gli Americani, come testimonia lo slogan di Trump: Make America great again, fare l’America nuovamente grande. Si tratta tuttavia di declino e non di collasso: gli Stati Uniti sono ancora in grado di esprimere una micidiale potenza, in termini militari, economico-finanziari, di soft power e di sistema di alleanze. Nondimeno sullo scacchiere globale sono apparse altre potenze.
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Quelli che un tempo venivano definiti “paesi in via di sviluppo” sono cresciuti di peso sul piano economico, politico e militare e hanno iniziato a coordinarsi tra di loro, in un processo di aggregazione che sta sviluppandosi vigorosamente. Si sta delineando un confronto tra il permanere dell’egemonia americana sul mondo e il determinarsi di una realtà multipolare. Come è noto, gli Stati Uniti stanno cercando di circondare e tenere sotto pressione gli Stati che considerano i maggiori contendenti: nella fattispecie Russia e Cina. Per reazione ciò non fa che incrementare un processo di avvicinamento delle nazioni appartenenti ai Brics, assieme ad altre che si aggregano, creando un controblocco.
Questa polarizzazione in atto provoca a sua volta anche una messa in discussione della narrazione che fino a oggi aveva accompagnato l’egemonia americana. Si tratta di una evoluzione sotterranea che sta coinvolgendo una parte minoritaria, ma più sensibile e critica, dell’opinione pubblica occidentale e più numerosa nei paesi del blocco emergente. Si inizia a prendere coscienza che, dalla fine della II guerra mondiale con gli scoppi di Hiroshima e Nagasaki in poi, gli Stati Uniti sono stati perennemente in guerra: guerre che poi non vincevano, in quanto prive di una visione strategica, ma che venivano combattute in quanto tali. Per non parlare dei colpi di stato, dell’insediamento di feroci dittature, di operazioni di regime change o di “rivoluzioni arancioni”.
Quella che veniva, e viene tuttora, spacciata per una necessità di sicurezza e di espansione di una non ben definita “democrazia” non era altro che il modo con cui gli USA garantivano il loro controllo sul mondo e il proprio benessere, con costi esorbitanti per tutti gli altri.
Gli Stati Uniti si sono assicurati una rete di basi militari espansa ovunque e si sono garantiti il controllo dei mari. Attraverso questi strumenti si proiettano sul resto del mondo. Benché questa loro espansione tragga origine da tempi lontani, l’ossessione securitaria e la spinta militarista a oltranza hanno trovato un loro travolgente sviluppo sull’onda della guerra fredda e del maccartismo, creando tuttavia grossi problemi. La crescita enorme dell’apparato militare e dei costi relativi, che avevano trovato una sponda con il simmetrico abnorme sviluppo dell’industria bellica, hanno generato un micidiale gruppo di potere in grado di condizionare la politica statunitense e di porre anche difficoltà alla tenuta democratica del paese. Già Eisenhower aveva messo in guardia contro questo pericolo: pericolo che oggi ha preso forma. L’apparato industrial-militare è uno dei soggetti che determina la politica americana in un’ottica che punta a perseguire propri obiettivi piuttosto di quelli dell’intera nazione.
Nella stessa direzione di autonomia nel perseguire i propri fini si muovono le élite finanziarie e tecnologiche, in un intreccio di finanza e potere tecnico che si rimbalza da una costa all’altra degli USA. Blackrock, un gigante nella gestione degli investimenti, che gestisce circa 10.000 miliardi di dollari e che è presente con ruolo determinante nei consigli di amministrazione di tutti gruppi industriali e finanziari del pianeta – tra l’altro è presente nel consiglio di amministrazione di Black Water, la compagnia di mercenari, sedicenti contractors, le cui imprese in Iraq q e Afganistan sono ben note –, ha sede a New York.
I giganti dell’informatica, con annesso potere di controllo e manipolazione, sono insediati in California. Entrambi questi soggetti hanno accumulato un potere che trascende di molto quello degli Stati nazionali, inclusi gli Stati Uniti. Gli Stati nazionali sono diventati pedine nelle loro mani e quello che la narrazione ufficiale si ostina a chiamare “democrazia” appare sempre più una finzione. La politica è ormai sotto scacco.
Questa situazione è foriera di grandi scompensi. Gli Stati nazionali bene o male governavano – anche se molto spesso lo Stato borghese ha assunto ruoli repressivi nei confronti del proletariato – e offrivano rappresentanza e protezione alla propria popolazione. I nuovi gruppi di potere si muovono invece in una logica di totale autonomia, attenti esclusivamente ai loro calcoli e interessi. Ciò genera turbocapitalismo, aumento esponenziale di conflitti e concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, oltre che sfruttamento su scala planetaria e compressione dei diritti sociali.
Dietro a questo fenomeno non vi sono solo aspetti che riguardano finanza e tecnica, ma è presente una ben definita ideologia, espressa in qualche modo da Klaus Schwab e il circolo di Davos, che prospetta una realtà globale sovranazionale in cui un insieme di élite esercita dominio. E intrecciato con questo aspetto vi è il fenomeno della presenza filosionista nei gangli dei centri di potere. Ad esempio, senza dilungarci in analisi, il discorso vale per Black Rock, che ricordiamo essere in grado di mettere finanziariamente in crisi Stati nazionali, e per gran parte delle élite tecnologiche della California.
D’altro canto le visioni sono molto simili: il Sionismo vede Gerusalemme come il polo cui farà riferimento una rete di gruppi di potere sparsi nel mondo e il gruppo di Davos persegue una simile visione transnazionale.
È interessante anche prender nota che Yuval Harari, un raffinato filosofo israeliano, nel suo libro Homo Deus, descrive un processo in cui l’uomo, grazie allo sviluppo della tecnica e dell’intelligenza artificiale, sarà in grado di ottenere poteri quasi divini. Ovviamente, ciò riguarda solo la ristretta élite in grado di controllare questi strumenti. Il resto dell’umanità diventerà una massa inutile, quasi come i cavalli a seguito dell’utilizzo della macchina a vapore. Harari considera questo processo triste ma ineluttabile.
Questo a grandissime linee il quadro che sta emergendo. In questo contesto, l’America, cioè il paese che ha fino a oggi espresso la leadership mondiale, appare in crisi. È profondamente diviso al suo interno, frammentato tra gruppi diversi che si fronteggiano aggressivamente. Come è noto sono numerosissime le milizie armate e armi di ogni genere sono ampiamente diffuse. Con l’assalto al Campidoglio a seguito delle ultime elezioni presidenziali si è avuta una visione del livello dello scontro. Con un paese così frazionato e tenuto sotto scacco dai vari centri di potere, sarebbe necessaria una presenza politica di alto profilo, invece si confrontano un personaggio grottesco come Trump e una ridanciana nullità, espressione delle élite finanziarie californiane, come la Harris. Non che in Italia e nel resto d’Europa la situazione sia migliore.
Questo stato di cose si è determinato per la progressiva deriva di quella che una volta si chiamava sinistra, che si è modificata assumendo le posizioni delle élite finanziarie in materia sociale ed economica, cercando di legittimarsi su aspetti secondari di costume e assumendo una ideologia woke. Già negli anni ’70 ci si chiedeva ironicamente se fosse più democratico votare un partito unico, come in Unione Sovietica, oppure due partiti uguali come negli Stati Uniti.
Le recenti guerre, in Ucraina e a Gaza, hanno poi fatto precipitare la situazione. Le sedicenti socialdemocrazie si sono schierate compattamente su posizioni atlantiste e hanno iniziato a reprimere con brutalità le proteste per il genocidio in corso a Gaza. Libertà di parola e di espressione del dissenso sono diritti democratici che vanno scomparendo. In Francia poi, a fronte di una vittoria seppur di misura di una rinascente sinistra, è stato incaricato quale primo ministro un rappresentante della destra che aveva avuto il più basso risultato elettorale. Si conferma così l’inutilità del voto, come già ha compreso il 50% degli elettori che ovunque si astengono.
Con il radicalizzarsi della situazione e l’evidente crisi della narrazione che finora è stata trasmessa, come è logico, iniziano tuttavia a determinarsi elementi che si muovono in controtendenza. Abbiamo visto in Francia l’aggregarsi di un consistente polo alternativo a un sistema win-win, in cui in ogni caso sono gli interessi delle élite a essere vincenti.
In Germania si è avuto un discreto successo della lista di Sahra Wagenknecht e in Gran Bretagna con fatica si sta stabilendo un polo tra Jeremy Corbin e comunità musulmane. Negli stessi USA, anche a seguito delle manifestazioni a favore di Gaza e alle occupazioni delle università – e ricordiamo che iniziando da analoghe manifestazioni universitarie a suo tempo si è conclusa la guerra nel Vietnam – si stanno rafforzando e organizzando poli alternativi, come quelli che fanno capo a Jill Stein e a Cornell West. In Occidente queste manifestazioni sono ancora embrionali e continua a esserci una enorme disparità con le forza che hanno condotto il gioco fino a oggi.
Diversa è la situazione nel resto del mondo e l’immagine dei risultati della votazione sulla mozione palestinese alle Nazioni Unite (128 favorevoli a fronte di 14 contrari) è la rappresentazione plastica di uno slittamento epocale. Il colonialismo francese in Africa ha conosciuto una forte battuta d’arresto. Il gruppo dei BRICS, anche se non ancora perfettamente strutturato e allineato, sta ergendosi sulla scena mondiale e sta aggregando nazioni desiderose di unirvisi. Le avventurose pressioni americane nei confronti di Russia e Cina, che vengono letteralmente circondate da una cintura di forze ostili, hanno ottenuto il risultato di avvicinare queste due potenze anche sul piano militare, cui si aggregano Iran, Nord Corea e altre forze. D’altro canto sono noti i limiti americani in fatto di strategia di lungo periodo.
Purtroppo la situazione che si è determinata è esplosiva e vi è il forte rischio che degeneri con esiti catastrofici. Duole osservare che le voci che si alzano a favore di una de-escalation se non della pace sono flebili. In generale, i partiti tradizionali dell’Occidente e i governi che esprimono, per miope calcolo opportunistico, si allineano entusiasticamente sulle posizioni atlantiche degli USA e della Gran Bretagna, che pensa in tal modo di poter giocare un ruolo di rilievo nel quadro geopolitico. Questa realtà cui assistiamo increduli appare poi con anche maggior evidenza riguardo all’orrendo genocidio in corso a Gaza.
Le guerre a Gaza e in Libano hanno segnato una escalation in negativo, anche se definirle guerre è un eufemismo quando si tratta piuttosto di un genocidio, un accanirsi contro la popolazione e contro ogni aspetto di vita civile, nel tentativo di completare una pulizia etnica. Oltretutto con l’aggravante che non si tratta danni accidentali, ma si tratta di un obiettivo dichiarato. Gallant, il ministro israeliano della difesa, ha apertamente dichiarato che i Gazawi andavano massacrati in ogni modo essendo “animali in forma umana”. La disumanizzazione del nemico e la mancanza di limiti nel massacro di civili riportano tragicamente indietro il tentativo di mantenere lo scontro armato in un quadro accettabile, con norme contro i crimini di guerra e norme di protezione umanitaria.
Anzi, non solo tali norme non vengono rispettate, ma si assiste a un tentativo di delegittimazione degli organismi internazionali e dei soggetti umanitari, siano essi ONU, UNWRA, Corte internazionale di giustizia. Ospedali, ambulanze, giornalisti, operatori umanitari, campi profughi e rifugi improvvisati in strutture internazionali divengono quotidiani obiettivi.
Questa rincorsa a imbarbarire la guerra viene da lontano. Riordiamoci di quanto gli Americani si siano indignati per l’attacco a Pearl Harbour con qualche ora d’anticipo sulla dichiarazione formale di guerra. Ora le dichiarazioni di guerra non esistono più, si attacca a prescindere: bastano solo equilibrismi semantici, come “missione di pace”, “esportazione della democrazia”, “guerriglieri non autorizzati” o meglio “terroristi”. Ad esempio, il bombardamento al fosforo a Falluja, il bombardamento al napalm sui civili iracheni in fuga dal sud, Abu Ghraib, Guantanamo rappresentano tappe di questo imbarbarimento, che a Gaza e in Libano ha preso una dimensione spettacolare che ci accompagna, almeno per coloro che vogliano vedere.
La situazione sta sfuggendo di mano e a fronte di quanto sommariamente delineato in precedenza non resta che prendere a prestito e fare nostra l’espressione evangelica (Mt. 16.18): non prevalebunt, non prevarranno.