Attacchi in Germania e Francia/ L'esperto: "Allarme terrorismo in tutta Europa. A emergere è l'autoradicalizzazione"

"Vediamo la presenza di ISIS, che oggi ovviamente esiste ma è mutato in ISK, è molto diverso". Intervista a Andrea Molle, professore associato di relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California

di Samuel Botti
Tags:
terrorismo europa

Terrorismo

Esteri

Dopo i recenti episodi avvenuti in Germania e in Francia, intervista a Andrea Molle, professore associato di relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California

Due auto, tra cui una contenente una bombola di gas, sono esplose davanti alla sinagoga di La Grande-Motte, nell’Occitania, ferendo un’agente di polizia municipale che stava lavorando nelle vicinanze.

Mentre a Solingen, città di appena 160mila abitanti a pochi chilometri da Düsseldorf, un terrorista siriano ha ucciso 3 persone con un coltello, ferendone altre 8 prima di costituirsi alle autorità. L’attentato è stato successivamente rivendicato dall’Isis.

Questi attacchi, sempre più frequenti, riportano i cittadini europei indietro di un decennio, dove tra Bataclan, Stade de France e Charlie Hebdo persero la vita più di 140 persone.

Tuttavia, il terrorismo sta cambiando. Questa volta niente kalashnikov, niente capitali affollate, ma armi bianche e cittadine di provincia, come per far capire che il terrore è letteralmente a portata di mano.

Ne abbiamo parlato con Andrea Molle, professore associato di relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California. «Nuova ondata? Evoluzione nel mondo della jihad, serve più controllo alle frontiere». L’intervista.

Professor Molle, l’Europa deve preoccuparsi per una nuova ondata di terrorismo?

Credo fermamente che l'attenzione debba essere innalzata perché stiamo assistendo ad un un aumento degli eventi terroristici.

Quantitativamente e qualitativamente ci sono delle differenze rispetto all'ondata 2013-2016, anche se ovviamente con alcuni punti in comune. Primo fra tutti è che questa organizzazione capitalizza su tensioni e conflitti internazionali molto accesi; in passato è stata la Siria, ma a questo giro non possiamo non vedere l'impatto del conflitto tra Hamas e Israele, ovviamente con la possibilità di un'espansione, dal Libano all'Iran.

Cosa distingue questa sorta di nuovo Isis dagli attacchi del passato?

Quello che manca è la dimensione del coordinamento. Quando guardiamo alla stagione precedente, vediamo la presenza di ISIS, che oggi ovviamente esiste ma è mutato in ISK, è molto diverso: è meno impattante sia da un punto di vista organizzativo, sia sul lato operativo. Questo lo si nota anche dal ridotto utilizzo delle bombe.

In questo caso, ad emergere è proprio l'autoradicalizzazione, una maggior presenza della dimensione simbolica e di fenomeni emotivi degli attentati.

Le armi e gli obiettivi sembrano essersi “semplificati”: passiamo da bombe o kalashnikov tra le strade di Parigi ad accoltellamenti in mezzo a piccole piazze di provincia. Si può parlare di minimo sforzo massima resa?

Sì, sicuramente il rapporto costo benefici è migliore, soprattutto perché organizzare attentati come quelli francesi richiede capacità operative, addestramento, costi e tempi molto più lunghi.

Inoltre, richiede il sacrificio personale, che ha un certo valore anche all'interno delle organizzazioni. Oggi ci si avvale di quello che nell'ambiente scientifico viene definito come “terrorismo stocastico”: radicalizzare gli individui o spingerli a farlo, per poi farli agire in maniera autonoma, lasciando loro la scelta degli obiettivi, le opportunità e le armi da utilizzare.

Questo modus operandi, ha un valore mediatico uguale, se non addirittura maggiore. Se in passato la percezione dell'attentato veniva associata a strutture istituzionali, o luoghi come stadi e locali da concerto, oggi invece il senso di insicurezza pervade anche nelle strade del tuo paesino.

Questo mette le persone nella condizione di vivere nel terrore, soprattutto se le armi utilizzate sono oggetti di tutti i giorni, come i coltelli, molto complicati in termini di difesa.

C'è poi tutta la dimensione simbolica del sacrificio, che negli aspetti più antropologici e sociologici si traduce nella massima espressione di fede grazie ad elementi come il sangue e la vittima sacrificale.

Nel terrorismo di matrice islamica classico, sopravvivere ad un attentato è un disonore per i cosiddetti kamikaze. Oggi invece, come successo a Solingen, addirittura si costituiscono. Cos’è cambiato?

Qui entriamo in una fase abbastanza nuova dello sviluppo del terrorismo di matrice islamista.

Prima, vigeva questa sorta di dimensione del martirio, in cui chi riusciva a morire otteneva tutti i benefici soprannaturali del caso, come l’ingresso in paradiso. L’elemento del kamikaze negli anni ha generato ovviamente lo shock nell'opinione pubblica; inoltre, c'è anche un motivo operativo, dovuto dal fatto che catturare un prigioniero significa esporsi, con la possibilità di avere una fuga di informazioni.

Il cambio di questa ideologia invece può essere ricondotto ad un altro tipo di logica, e cioè quella di voler fare dell’attentatore una sorta di simbolo, come il mito del prigioniero politico o del ribelle oppositore, in modo da suscitare un'ondata di emulazione.

Bisogna tenere conto che l’emulazione dell'attentato suicida è una cosa diversa. Si tratta di un costo molto alto, perché richiede una forte radicalizzazione tale appunto da sacrificare la propria vita per quel gesto. Al contrario, emulare un attentato dove si finisce in carcere, consentirebbe al carnefice di diventare un eroe celebrato all'interno del movimento: così facendo, questa cultura ideologica diventa molto più appetibile.

È sicuramente un cambiamento sia dal punto di vista ideologico che dal punto di vista operativo, per questo il paragone con l’ondata precedente può servire, ma con alcuni limiti.

Vista la provenienza dell’attentatore di Solingen, la Siria rimane l’hotspot del terrorismo? O crede che la Palestina possa tornare in auge come negli anni ’80 visti gli attacchi di Israele?

Credo che le due cose non si escludano a vicenda. Sicuramente la Siria rimane ancora un elemento molto importante nell'ecosistema terroristico di matrice islamista mondiale, o comunque quello che più direttamente impatta l'Europa. Anche l’Afghanistan in qualche modo rimane sempre legato a questo tipo di dinamiche.

Per quanto riguarda la Palestina, sì, sicuramente ci sarà un risveglio. Ma questo è un anche l'obiettivo di Hamas, ovvero globalizzare i temi relativi al conflitto.

Inoltre, il vantaggio della questione palestinese è anche quella che si va ad agganciare a discorsi politici più ampi. In qualche modo vediamo una sorta di complicità ideologica, se non diretta, indiretta da parte di certi gruppi politici che sono assolutamente non terroristici all'interno dell'Europa; riprendere quei discorsi di liberazione, di decolonizzazione, di lotta all'imperialismo e al colonialismo sono argomenti che poi rientrano anche nei discorsi più mainstream della sinistra italiana, europea, ma anche in quella americana. In questo modo, le organizzazioni terroristiche trovano come una giustificazione da un punto di vista ideologico.

La Palestina rientra, come negli anni ‘80, dalla porta principale all'interno del problema terrorismo in Europa. Spero di sbagliarmi, ma in questo penso che vedremo un aumento ancora maggiore dei casi di terrorismo legati alla dimensione antisemitica.

Quali misure dovrebbe adottare l’Europa per cercare di arginare il problema?

L'Europa purtroppo sovrappone il problema del terrorismo con l’islamofobia, e così facendo va a creare un fenomeno che potenzialmente diventa uno strumento di discriminazione. Questo è anche l'annoso problema dell'antiterrorismo.

Bene per quanto riguarda la prevenzione alla radicalizzazione. Sicuramente un controllo maggiore alle frontiere aiuterebbe, come un maggior coordinamento tra Paesi europei e un intervento dei Paesi d'origine; non un intervento che mira semplicemente a chiudere le rotte di immigrazione, perché questo è assolutamente impossibile, e lo sappiamo da tempo. Però quantomeno bisognerebbe gestire il fenomeno non sempre con la logica della crisi, ma in maniera più organica e meno complessa.

Inoltre, è importante intervenire nelle aree di crisi con una diplomazia incisiva, sia civile che militare, cosa che non vedo avvenire nel conflitto di Gaza e in Medio Oriente; c'è sempre una sorta di ambiguità nelle dichiarazioni, mascherata in equidistanza che in realtà è solamente un’ambiguità figlia dell’imbarazzo di non poter prendere una posizione. Questo agevola la crescita della frustrazione e l'aumento di eventi di questo tipo.

L’Italia potrebbe diventare un nuovo bersaglio per il terrorismo?

Storicamente vedo due ragioni per la quale l'Italia è stata risparmiata negli anni.

La prima è una ragione che alcuni possono ritenere positiva, ovvero la posizione filo dichiaratamente filoaraba del nostro Paese, o comunque una conciliante e di non netta contrarietà nei confronti degli Stati islamici.

L'altra ragione è la passata irrilevanza politica e geopolitica dell'Italia, all'interno anche nel Mar Mediterraneo. Paesi come la Francia o la Germania, che hanno avuto comunque una posizione militare, economica e diplomatica molto più attiva, incorrono ovviamente in un rischio maggiore.

L'Italia sta accrescendo il suo ruolo in Africa, nel Medio Oriente e addirittura nell'indopacifico. Farlo comporterà sicuramente maggior rischi, a maggiori rischi di attività cinetiche, sia militari sul campo che verso la società civile all’interno del Paese.

Se l’Italia pretende poter assumere una posizione di questo tipo senza aumentare il rischio di ripercussioni, è un sogno.

Quindi, bisogna decidere. Se si vuole avere un ruolo più attivo dovremo assumerci più responsabilità, sempre nel ruolo conciliante ed equidistante che ci caratterizza, ma tenendo in conto di non poter essere esclusi dalle ripercussioni.

 

Leggi anche/ Ucraina, Romeo (Lega): "Stop retorica bellicista, ci si avvii verso una tregua e verso i negoziati" - Affaritaliani.it