Tigray, dopo la tregua la sfilata dei "soldati" catturati. La fiction del Tplf

di Marilena Dolce
Mekellé, immagine post prodotta, non è la sfilata dopo il cessate il fuoco.
Esteri
Condividi su:

I risultati ufficiali delle elezioni in Etiopia annunciati lo scorso 11 luglio danno al Partito della Prosperità (PP) 421 seggi su 436. A settembre si voterà ancora in alcune aree del paese rimaste per il momento escluse, non però nel Tigray.

Si tratta di una vittoria importante per Addis Abeba, che assicura al primo ministro Abiy Ahmed, in carica dal 2018, un secondo mandato di cinque anni, rafforzando la sua leadership in un momento certo non facile per il paese.

Nelle scorse settimane, il 28 giugno, era arrivata una notizia sorprendente, la proclamazione unilaterale del governo centrale del cessate il fuoco per motivi umanitari.

In buona sostanza il governo di Addis Abeba aveva scelto di mettere al primo posto la popolazione del Tigray, come richiesto anche dalle agenzie internazionali, per scongiurare una grave crisi umanitaria. Perché in questo momento il pericolo più grande è la carestia che potrebbe travolgere più di 400 mila persone. L’esercito federale, quindi, si ritira per fermare gli scontri armati e permettere agli agricoltori di non perdere la stagione del raccolto. Il Tigray è una regione arida e montuosa a nord del Paese, con piogge scarse, già in grave difficoltà prima della guerra, per la pandemia e gli sciami di locuste. Il conflitto scoppiato lo scorso novembre lo ha ulteriormente indebolito, impedendo anche la semina nei campi.

Ora tra Tplf (Tigray People's Liberation Front ) e governo di Addis Abeba c’è una tregua.

Le dichiarazioni di Abiy, però, escludono la possibilità che il governo sieda al tavolo delle trattative con i rappresentanti Tplf, definiti terroristi dal parlamento, per l’attacco compiuto contro la Caserma Nord, deposito nazionale delle armi.

Per la pace i sei milioni di tigrini dovranno aspettare ancora. Intanto la guerra ha cambiato il volto della regione. Un terzo degli abitanti è uno sfollato interno, costretto a spostarsi per abbandonare le zone più pericolose. Più di quarantacinquemila tigrini  sono ancora nei campi profughi in Sudan. Un numero altissimo di persone ha bisogno di aiuto per vivere. Servono farmaci, cure, ospedali. Tutto ciò che c’era è stato razziato, portato via, distrutto.

Il Tplf ha fatto terra bruciata intorno a sé e nella  propria terra per due motivi, per poter incolpare gli “invasori”, esercito federale e alleati Amhara ed eritrei e per attirare in modo urgente e indispensabile le agenzie internazionali. Fao, (Food and Agriculture Organization of the United Nations), Unhcr,( UN Refugee Agency), Wfp, (World Food Programme), Msf, (Medici senza Frontiere) hanno da tempo consolidate strutture in Etiopia, anche nel Tigray. Le persone che vi lavorano, soprattutto quelle del posto, conoscono bene luoghi e situazioni. Da ventisette anni era il governo regionale che affidava loro incarichi e ruoli.

Al cessate il fuoco governativo, il Tplf risponde, a botta calda, con frasi lapidarie e per niente concilianti, “finchè tutti i nemici non lasceranno il Tigray, combatteremo” , “la capitale del Tigray, Mekelle, è sotto il nostro controllo”, dichiara Getachew Reda, leader Tplf, alla Reuters che lo intervista via telefono satellitare.

E proprio Mekellé, nelle ore successive al cessate il fuoco, diventa teatro di una grande festa orchestrata e raccontata dal Tplf a beneficio dei media internazionali. Fuochi d’artificio che illuminano il cielo della città, bandiere giallo rosse che sventolano per strade gioiose. Nelle giornate successive il Tplf mette in rete un proprio dispaccio. “L’esercito del Tigray” scrivono “sta ottenendo splendide vittorie una dopo l’altra e ora ha il controllo di Mekellé”. Il governo del Tigray, comunicano, appoggerà le organizzazioni di aiuti internazionali perché possano accedere senza restrizioni nell’area, per portare gli aiuti. Tali organizzazioni, spiegano, potranno contare sul Tplf, perché il governo del Tigray si impegna a fornire supporto incondizionato, garantendo loro una personale sicurezza”.

Sembra che con queste promesse il governo del Tigray voglia rafforzare l’alleanza  con le Ong, la cui presenza è necessaria ora più che mai proprio per la guerra da loro scatenata.

Se nei convogli con il logo delle agenzie umanitarie che transitano per il Tigray ci sono merci preziose, come farmaci, acqua, sementi e molto altro, il Tplf garantirà sicurezza e immunità governativa. Del governo regionale, si intende. Una condizione mancata a tre operatori di Medici senza Frontiere, morti, prima del cessate il fuoco, in un attentato mentre raggiungevano una zona critica.

Il Tplf considera questo cessate il fuoco una rivalsa. Dopo mesi di fuga in montagna, i dirigenti sono ora in città per assaporare una vittoria conquistata più nelle retrovie e attraverso la politica che sul campo di battaglia. Certo non è mancato loro l’appoggio di Stati Uniti ed Europa. Del resto sono eredi del governo di Meles Zenawi, ed hanno mantenuto i vecchi e consolidati legami. Perciò il presidente Biden, che appena eletto si è trovato ad affrontare la spinosa questione Tigray, l’ha affidata a Tony Blinken che, come Susan Rice, considera l’Etiopia un paese che è bene resti politicamente sottoposto agli interessi occidentali.

Così nei giorni scorsi la stampa internazionale e anche quella italiana, peraltro poco attenta alla guerra nel Tigray, hanno pubblicato molte immagini per raccontare il trionfo del Tplf. Ovunque i titoli parlano di vittoria. Nella loro narrazione il Tplf smette di essere un gruppo elitario, di potere, ben addestrato anche nella comunicazione, per diventare una fronda rivoluzionaria.

Continua a leggere...

In particolare un’immagine conquista le prime pagine cartacee e sul web. In essa si vede un serpentone di soldati. La didascalia e l’articolo spiegano che sono soldati dell’esercito federale catturati dal Tplf e fatti sfilare per le strade della capitale prima di essere imprigionati.

Ma è così? Controllando e ricercando la fonte, esce una storia diversa ma non meno interessante.

Partiamo dalla data. Il contesto della cittadina ripresa nella fotografia e la scenografia non sono di fine giugno ma del 9 febbraio 1998. Cioè la foto è di 23 anni fa.

E neppure l’immagine dei soldati, evidentemente incollata per comporre il quadro, è del 29 giugno, ma del 24 febbraio 2021. Una data interessante perché il giorno successivo il governo di Addis Abeba avrebbe divulgato, con un comunicato stampa, l’apertura del Tigray ai media internazionali, “per riferire in modo accurato, veritiero e professionale” la guerra in corso. Sette le agenzie di media internazionali cui è dato accredito, AFP, Al Jazeera, New York Times, France 24, Reuters, BBC, Financial Times. E tra loro l’autore della foto, che in realtà non è uno scatto ma un accurato lavoro di post produzione. 

Completando l’analisi va detto che anche le persone che osservano il passaggio dei soldati dall’alto e sui bordi della strada non erano lì nel 1998. Sono comparse post prodotte prima della pubblicazione attuale. Senza entrare troppo nel dettaglio tecnico, va aggiunto che nell’immagine, così come la vediamo, colori e pixel non sono uniformi. Un dato importante che conferma l’ipotesi di ritocco e assemblaggio di immagini differenti.

Per ricapitolare alla foto di Mekellé del 1998 sono stati aggiunti soldati federali che indossano uniformi dell’esercito in dotazione da gennaio 2019. Infatti la loro immagine è del 2021, di aprile però non di fine giugno. Quindi non sfilano come prigionieri dopo un cessate il fuoco che ancora non c’era. Il distretto della scenografia, kebele 17, periferia sud est della città esiste realmente ma ambientazione e protagonisti non vanno a braccetto. Ognuno ha una propria data e un proprio scatto. Il collage, composto per l’orgoglio della vittoria, è un’opera di fantasia, piaciuta molto alla stampa occidentale, oltre che al Tplf.   

In conclusione fonti locali che, per ovvi  motivi, chiedono l’anonimato, interrogate sullo scatto, dicono che era noto che quelli nell’immagine non fossero soldati federali fatti prigionieri dopo il cessate il fuoco. A testimonianza di ciò mostrano due persone in prima fila nella foto stessa.

Dettaglio della sfilata, i due giovani nelle prime file, non sono soldati dell’esercito federale ma figuranti
 

Una ragazza che non sarebbe una soldatessa ma una combattente Tplf e il ragazzo con l’asciugamano rosa sulle spalle, che invece sarebbe un medico, come altre immagini dimostrerebbero. Hanno anche aggiunto di sapere che il Tplf  è solito arruolare giovani “comparse” per produrre foto come questa. Una specie di cinecittà con attori ingaggiati per raccontare storie e comporre fotogallery, a beneficio di un’opinione pubblica internazionale,  da mantenere, possibilmente, disinformata.

Continua a leggere...

Certo, dopo anni spesi per imparare a verificare le fonti, fotografiche e non, è allarmante vedere che tale cassetta degli attrezzi non sia stata per tutti la compagna di viaggio verso il Tigray. L’informazione corretta, durante un conflitto, può salvare molte vite, ma lo scontro tra Tplf e governo di Addis Abeba sta dimostrando, al contrario, la fragilità dei media occidentali. 

Clamoroso il caso della giovane “MonnaLiza”, per la stampa occidentale vittima e simbolo degli abusi dei soldati etiopici, che successivamente si è scoperto essere una combattente del Tplf ferita durante l’attacco del 4 novembre al Comando Nord. Per non dire del prete ortodosso, presunto testimone oculare dei massacri di Axum e dell’incendio della sua stessa chiesa, che in realtà non era un prete ma un signore di Boston ingaggiato nel ruolo.

Purtroppo a pagare il prezzo di questa pessima informazione, coordinata anche dalla diaspora estera filo Tigray, sono soprattutto le persone che vivono nella regione. Si vuole colpire il governo centrale, ma a pagare il prezzo più alto sono loro che, anche se non combattono, non hanno più la casa, le medicine, gli ospedali. Che devono dipendere dagli aiuti, che non hanno acqua né elettricità. Tutto per la cupidigia di un gruppo abituato al potere che non ha voluto perdere status e ricchezza con l’alternanza di governo. Un partito che ha deciso di abbandonare Addis Abeba, di non stare all’opposizione, ma di organizzare la guerra. Mettendo la propria regione e i compaesani nella condizione di fare i conti con la fuga, o peggio, la morte della generazione più giovane, cui hanno tolto la serenità dell’avvenire.

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Buon pomeriggio,
mi presento: sono un cittadino etiope di padre tigrino (4 generazioni in Eritrea), madre eritrea, nato e vissuto in Eritrea sino all'età di 22 anni. Ho passato la parte iniziale della mia vita sotto il Derg di Menghistu Hailemariam, per poi passare alla "democrazia illuminata" di Isaias Afewerki sino alla partenza forzata (ufficialmente mai dichiarata da parte eritrea) a partire dal 1998. Avendo io genitori, fratelli, sorelle, cugini, nipoti e cognati in ogni dove fra Etiopia ed Eritrea, (3 zii guerriglieri per l'Eritrea durante il Derg, di cui uno martire) ed in qualche modo riesco ad ottenere notizie di prima mano, rimango esterrefatto dalla narrazione fantasiosa della Vs "giornalista" Marilena Dolce, che per lavoro giornalistico intende un copia ed incolla delle verità ufficiali di Abiy Ahmed ed Isaias Afewerki. La Signora Dolce potrebbe cortesemente spiegare quanto segue:
-perchè fra i disperati che giungono sui barconi dopo aver affrontato morte in mare, nel deserto, trafficanti di organi, stupri ripetuti, ci sia una gran percentuale di Eritrei?
-prego poi di commentare le parole del premio Nobel per la "pace" da suo un discorso presso il parlamento Etiope dai video del link di seguito: https://eritreahub.org/how-prime-minister-abiy-encourages-rape-in-his-public-statements
Provi la Signora Dolce a dare un senso a tutto ciò, visto che i due capi di stato sono da Lei portati in palmo di mano e la colpa è di tutti gli altri che invece sono brutti sporchi e cattivi. Se non si parlasse di fatti tragici, la versione della "reporter" per cui gli stessi Tigrini abbiano distrutto il loro territorio uccisi i loro conterranei e stiano impedendo che questi ultimi siano soccorsi dagli aiuti umanitari potrebbe addirittura far ridere perché assume i contorni di uno stato di delirium tremens. Rimango in attesa di Vs riscontro curioso di conoscere cosa la Vs "imparziale" inviata di guerra si inventerà ora. Se non siete a conoscenza dei fatti realmente accaduti, Vi consiglio di non parlarne; tacendo si corre pure il rischio di apparire colti ed intelligenti. Mi congedo augurando a tutti Voi e Vs cari di non aver mai a che fare con personaggi del calibro di Abyi ed Isaias.
Buona vita a tutti.
Aron



LA RISPOSTA DI MARILENA DOLCE

Capisco dalla sua biografia lo stato di tensione provocata dall’attuale conflitto nella regione del Tigray in Etiopia. Perciò le rispondo, immaginando, in questo modo, di rispondere anche ad altri che si pongono le sue stesse domande. Come mai una giornalista italiana, senza virgolette perché appartengo all’ordine, si occupa di Tigray? Come mai segue questo conflitto ignorato dalla stampa italiana? Come fa? Che fonti utilizza? Lo scorso 25 febbraio, su pressione internazionale, il governo di Addis Abeba ha accreditato sette testate internazionali, AFP, Al Jazeera, New York Times, Reuters, BBC, Financial Times perché mandassero inviati e fotoreporter nel Tigray. Tra loro nessuna testata italiana. Questo non significa però che non se ne possa scrivere dall’Italia. Personalmente, oltre alle organizzazioni internazionali Unhcr, Msf, a quelle nazionali, Sant’Egidio, ho intervistato etiopici, diplomatici dell’Unione Europea, preti cattolici con missioni nel Tigray, volontari di diverse organizzazioni. Grazie alle loro parole, ai comunicati di agenzia e, soprattutto, ad un attento vaglio delle fonti, anche quelle fotografiche e video, dallo scorso 4 novembre sto scrivendo quanto accade nella zona di guerra. Il Tigray, come il resto del paese, è stato governato dal 1991 al 2018 dal Tplf (Tigray People’s Liberation Front). A quella data, ereditando uno stato d’emergenza, diventa premier Abiy Ahmed, che appartiene in parte all’etnia oromo, in parte amhara. Mentre Abiy riceve nel 2019 il premio Nobel per la Pace, il Tplf abbandona le cariche di governo e, a novembre 2020, attacca la riserva nazionale di armi che si trova nella regione che amministra. Una dichiarazione di guerra contro il governo centrale. Da fine giugno, come richiesto dalla comunità internazionale, è in vigore un cessate il fuoco unilaterale a cui il Tplf risponde, parlando alla Reuters via telefono satellitare, con frasi lapidarie e poco concilianti: “la capitale del Tigray è ora sotto il nostro controllo”. Nel frattempo le persone che vivono nel Tigray sono tra l’incudine e il martello. Riceveranno gli aiuti per cui è stata proclamata la tregua? Su sei milioni di abitanti, un terzo è sfollato e la gran parte ha bisogno di generi di prima necessità e alloggi. Il governo di Abiy, che nel frattempo ha vinto le elezioni, si è allineato alle richieste internazionali che hanno anche imposto un’indagine su crimini contro l’umanità, condotta da due agenzie, una internazionale l’altra interna. Però la pace non si sta avvicinando e il Tplf resta sul piede di guerra.
Lei chiede, inoltre, di spiegare perché gli eritrei escano clandestinamente dal paese affrontando, aggiungo, viaggi costosi, pericolosi e il pericolo della morte in mare. In estrema sintesi: l’Eritrea è un paese giovanissimo, diventato indipendente nel 1991, dopo trent’anni di guerra. Dal 1998 al 2000 un nuovo scontro contro l’Etiopia scombina gli equilibri interni. Una condizione di instabilità che perdura diciotto anni, fino all’arrivo in Etiopia del premier Abiy. E nel frattempo i giovani? Per moltissimi vivere nel proprio paese, con il nome Eritrea, non più Etiopia, sul documento, vale il sacrificio, per altri no. Comunque, nel 2012, in un intervento alla Clinton Foundation, l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riferendosi all’Eritrea, disse di voler aiutare le organizzazioni che ne avessero fatto fuggire i giovani. E così è stato, come l’alto numero di migranti arrivati in quegli anni dalla Libia in Italia, paese di transito, ha dimostrato. In chiusura, oltre ai saluti, la invito, attraverso il giornale, a mettersi in contatto con me, se ritenesse di poter testimoniare direttamente, cioè non riportando quanto letto su blog o social, sull’attuale situazione nella regione del Tigray.
@marilena dolce