Auto green, stazioni di rifornimento ibride entro il 2030. Il caso EasyCharge

Parla Bricchi, a capo di Brian and partners, al lavoro per creare un network di aziende per costruire stazioni di rifornimento elettriche, a idrogeno e a gas

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Può il futuro riservarci automobili a idrogeno? È possibile immaginare che i trasporti siano a emissioni zero, completamente green e virtuosi? Ne è convinto Andrea Bricchi, ingegnere e manager, a capo di Brian and partners, che sta movendosi per creare un network di aziende e corporazioni che portino ad avere stazioni di rifornimento ibride, elettriche, a idrogeno e a gas, entro il 2030. Dopo l’acquisizione, nel 2020, di una importante quota di EasyCharge, la piccola holding piacentina rilancia pensando a sistemi di mobilità sostenibile e integrata. Nata da due anni e tra le prime imprese italiane nel work for equity, Bricchi è arrivato alla guida della piccola holding dopo aver studiato tra Pavia e New York e aver intrapreso la carriera di dirigente industriale e imprenditore.

Bricchi, ci racconti in poche parole dove sta andando l’economia...
Più che “dove” mi piacerebbe poter influire sul “come”. Stiamo pensando molto al futuro della mobilità, per esempio, siamo convinti che sarà uno dei principali driver per il nostro sistema Paese nei prossimi decenni. immagino e auspico una crescita del trasporto ferroviario e di tutto ciò che non dipende direttamente dai combustibili fossili, come l’elettrico e l’idrogeno. 

Cosa state facendo in tal senso? 
L’anno scorso abbiamo acquisito una quota molto consistente di EasyCharge e stiamo analizzando nuove soluzioni, oltre a sviluppare algoritmi per la ricarica intelligente. Tra queste nuove idee di mobilità ci sono anche forme di combustibili come l’idrogeno, per esempio. Al momento ci sono treni a idrogeno già attivi in Germania. In Italia arriveranno nel 2023, in Francia nel 2024. Noi vorremmo poter essere attori protagonisti nel campo delle auto a idrogeno e ibride. Perché lì c’è il futuro. Entro il 2030 vorremmo veder realizzato questo progetto, come fossero le macchine volanti di Ritorno al Futuro. 

Come si ottiene l’idrogeno?
L’idrogeno è l’elemento più leggero e abbondante nell’universo, di cui costituisce oltre il 90%. È il cosiddetto “combustibile delle stelle”, perché è il propellente che genera le reazioni di fusione nucleare che consente alle stelle di bruciare. Quindi di fatto l’energia solare viene dall’idrogeno. 
Normalmente è presente in forma gassosa, cioè una molecola di due atomi, H2, che a contatto con l’ossigeno brucia come il metano o altri gas, tanto da essere considerato il combustibile con il massimo contenuto di energia per unità di peso, addirittura tre volte superiore a quello della benzina.
Viene ottenuto da campi fotovoltaici o turbine eoliche, perché l’energia in eccesso viene sfruttata per questo. Poi ricombinato con l’ossigeno in celle a combustibile ad alta pressione: da una parte produce acqua pura, dall’altra energia pulitissima con cui alimentare le batterie di automobili, treni, bus e tutto ciò che si muove su strada o su rotaia. Questo è il futuro. E sempre dall’idrogeno otterremo energia per l’industria, per il riscaldamento e tutto ciò che oggi contribuisce ad inquinare pesantemente il nostro pianeta. 

E voi cosa farete, in concreto? 
Ci piacerebbe imparare, capire se ci sia spazio per progetti pilota e sperimentazioni. Abbiamo l’ambizione di essere pionieri in questa direzione. Sto seguendo ALSTOM con grande attenzione, per esempio. Sono il più grande costruttore di treni al mondo e puntano tantissimo su questi temi. Ho intavolato le prime discussioni, vorrei poter crescere e lavorare in una nicchia sostenibile. 
Per esempio vorrei convincere alcune città, come la mia Piacenza, a provarci: amministrazione pubblica, mondo associativo, università, imprese: se lavorano insieme possono generare un circolo virtuoso molto interessante. Per dirne una: Lunedì a Piacenza avremo un’assemblea di Confindustria con un ospite molto importante, Carlo Ratti, che dirige il Senseable City Lab al MIT di Boston. C’è fermento. Sono occasioni da non perdere. Avere l’intuizione giusta con l’anticipo necessario può essere fondamentale. 

Parlando in generale, perché l’economia va male? 
Io non penso che l’economia vada male. C’è la percezione che vada male perché il modello tradizionale è in forte crisi. Con una metafora calcistica potremmo dire che eravamo abituati a veder giocare Totti. Oggi che non gioca più potremmo aver l’impressione che il calcio vada male, però il calcio non è Totti. Mi spiego? L’economia ha difficoltà a cambiare pelle perché c’è una base storica di imprese che arrancano. E arrancano per due motivi principali: quando non ci sono più le condizioni per andar bene in quel settore specifico e, a volte, quando alla guida ci sono i figli o i nipoti del fondatore, che non è detto siano anche buoni manager. Se produci telefoni fissi, per fare un esempio, probabilmente sei stato sulla cresta dell’onda fino alla fine degli anni novanta, poi si è esaurito quel mercato. E guidare un’azienda non è facile e non si trasmette né col DNA né come un titolo nobiliare. Spesso serve lucidità, per il bene di tutti. 
 
Quindi va tutto bene? 
Cosa significa “tutto bene”? Va. Come il giorno e la notte, come le onde del mare. Il mercato si evolve, bisogna sapersi adattare, evolversi con lui, perché non è un’entità reale, non c’è una grande regia mondiale, come molti pensano. È fluido, è la sommatoria hegeliana, se posso coniare questo neologismo, delle scelte infinitesimali di tutti gli attori. E tutto passa, cambia, ritorna, spesso si migliora. Ci sono stati impedimenti grossi, come una pandemia mondiale, recentemente. Però anche questo fa parte del normale andar del mondo. E va affrontato come un problema da risolvere. Chi si ferma è perduto. Però non va tutto male, l’economia si evolve, come il linguaggio, come il modo di vestirsi o di passare il tempo libero. Chi potrebbe fare a meno di uno smartphone, oggi? Eppure fino a dieci anni fa abbiamo vissuto benissimo senza. 
 
Chi è Andrea Bricchi e come diventa imprenditore?
Sono un ingegnere elettronico vecchio stampo, con una specializzazione in microelettronica, in particolare sui sistemi MEMS e diplomi post universitari in Finanza, Gestione Aziendale, Giurisprudenza e Contrattualistica Internazionale. Ho fatto per anni il dirigente nel ramo delle telecomunicazioni e dell’industria, occupandomi prevalentemente di mercati esteri. Poi all’improvviso ho dovuto adattarmi al cambiamento, esattamente come dicevo prima. Sono soprattutto un entusiasta, il resto vien da sé. 
  
Vien da sé sotto il nome di Brian and partners. Che cos’è? 

 È una piccolissima holding, però una delle prime in Italia nel work for equity. Ne sono molto fiero, anche perché è nata cosmopolita. Un mio amico mi ha dato un ufficio a New York, un altro a Parigi, per esempio. Siamo di Piacenza, ma siamo del mondo. Nasce dall’idea che buona parte delle startup e delle PMI italiane possano essere gestite meglio. La nostra esperienza insegna che si può ottimizzare e far crescere, anche molto, qualsiasi azienda. Bisogna saperlo fare. Questo è il nostro mestiere. E lo facciamo insieme a imprenditori e dirigenti, non al posto loro. Qui sta la novità. Vinciamo solo se vincono anche loro. 

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Come? 
Le PMI sono spesso costrette a tagliare i costi operativi, soprattutto gli acquisti di materie prime e semilavorati, riducendo in maniera significativa anche i costi per servizi. Nonostante il blocco dei licenziamenti, si trovano anche costrette a ridurre i costi del lavoro, si stima del 12% circa, sfruttando l’estensione della Cassa Integrazione, misura a cui hanno fatto ricorso moltissime aziende. La decisa riduzione dei costi operata dalle PMI sarà però insufficiente per evitare una nuova e brusca caduta della redditività lorda. 
La base di partenza sana renderà mediamente sostenibili gli indici di solidità finanziaria e patrimoniale, attesi comunque in deterioramento. Il leverage crescerà, si stima, dal 61% al 70%, mentre il rapporto tra oneri finanziari e Mol crescerà dal 12% al 15%. Nonostante questo balzo, entrambi gli indici rimangono ben al di sotto dei livelli del 2007. Solo il rapporto tra debiti finanziari e Mol, che crescerà da un multiplo di 3,1 a uno di 4,5, sarà oltre la soglia del 2007, a causa del crollo della redditività lorda e del maggiore ricorso delle PMI ai debiti. Spesso non è sostenibile. E qui arriviamo noi. L’iniezione di risorse nel sistema delle PMI deve prevedere sia finanziamenti a debito sia apporti di capitale di rischio, ma soprattutto capacità di “accelerare” velocemente e nella giusta direzione. Ci occupiamo di questo aspetto. 
 
 Il vostro fatturato è più basso di quanto uno si aspetterebbe. È vero che siete una neocostituita, ma non ha l’impressione di giocare da lillipuziano in un ruolo da gigante? 
Sì, è vero. Però bisogna capirsi: una holding, per quanto piccola, guadagna sul medio e lungo periodo. Ad oggi ci manteniamo, guadagnando. E lavoriamo in tanti, questo per me è fondamentale. In Brian abbiamo dipendenti giovani, laureati, specializzatissimi, con una percentuale femminile di grande maggioranza. I guadagni arriveranno dalle exit consistenti, tra qualche anno, ma già oggi siamo sufficientemente grandi, rispetto alle attese. E poi abbiamo partners industriali di livello mondiale! Lavoriamo su molti importanti mercati esteri. Seguiamo anche gare d’appalto enormi, a volte. Ho un ufficio a New York, uno a Parigi, uno a Marsiglia, altri ne arriveranno. Ogni giorno si respira entusiasmo, in un ambiente giovane, molto dinamico, pieno di soprese e momenti di grande condivisione. Siamo una squadra, in cui i nomi contano: Paola, Letizia, Rebecca, Marta, Arianna, Gianmarco, Giorgia, Christian, Alessandro, Nino, Lorenzo, Andrea. Persone, con ruoli e compiti, ma anche con possibilità di esprimere al meglio tutto il loro potenziale. Non potevamo cominciare meglio. Mi creda, sono molto orgoglioso di questo. Brian è una formica atomica! 
 
 Quando vi chiedono quale sia esattamente il vostro lavoro, cosa rispondete? 
 La risposta migliore l’ha data Mario Menicagli, il direttore del Goldoni di Livorno. Disse che faccio il lavoro di Richard Gere in Pretty Woman, però a Piacenza invece che a Hollywood. In proporzione è vero e la gente lo capisce al volo! 
 
Voi siete avvoltoi mascherati? Ci può essere questa percezione...
Tutto fuorché avvoltoi. L’Italia è molto indietro sotto questo aspetto, rispetto alla media dei Paesi più industrializzati. Sicuramente l’obiettivo è di uscire dal capitale con un capital gainsul medio periodo, ma la exit policy può essere definita fin dall’inizio, all’atto di acquisizione delle quote. Si parla di “Capitale di Rischio”, in aziende dotate di un progetto e di un potenziale di sviluppo. I private equity sono investitori finanziari, ma a differenza di altri fondi d’investimento prendono attivamente parte alla gestione e lo fanno insieme alla proprietà. Se non guadagna il proprietario non lo facciamo nemmeno noi. Dov’è che siamo avvoltoi? Non obblighiamo nessuno. A volte ci accorgiamo di piccolissime cose che penalizzano oltremodo le aziende, ma che chi le vive da decenni non vede, perché ci sono sempre state. C’era un’azienda che spendeva in pulizie il 7% del suo EBITDA. Incredibile, vero? Ma è qui che si costruisce il successo. Anzi, oltre alle risorse finanziarie, mettiamo soprattutto esperienze professionali, competenze tecniche e manageriali, oltre a una rete di contatti con altri investitori e istituzioni finanziarie che poi restano in azienda anche dopo la nostra uscita. Avvoltoi è proprio un concetto sbagliato e non lo sopporto. 
 
L’opinione pubblica però pensa questo di voi. 

 L’opinione pubblica si forma sui film e sui cliché. Io sono piacentino e dico sempre che chi fa il mio lavoro a New York viene definito “squalo”, qui al massimo sei un “pōsgàtt”, un pescegatto. Il mio obiettivo non è spiegare alla gente l’evoluzione ittica. Io faccio funzionare bene aziende. E mi pagano per questo. E non c’è niente di immorale, anzi… Al contrario! 
 
Vorrebbe far credere che il vostro interesse sia quasi “etico”? Non vi interessa approfittare di situazioni di difficoltà?

Non ci capiamo. Noi non approfittiamo di niente, mettiamo le nostre capacità al servizio di altri e chiediamo in cambio un compenso. Esattamente come un fabbro o un panettiere. Gli investitori finanziari hanno interesse soprattutto verso aziende che abbiano prospettive di generare un IRR almeno in linea con i rendimenti medi di mercato per investimenti nel capitale di rischio. Quindi non cerchiamo di cannibalizzare aziende in crisi. Anzi, in alcuni casi, le salviamo gratis. Mi è successo anche pochi mesi fa, senza far nomi. Ma sono contento così, c’erano dei posti di lavoro in ballo. Il guadagno viene dopo. E sono convintissimo che l’aspetto etico sarà sempre più importante, per avere successo. Le società sono fatte di persone e le persone sono importanti, vanno trattate bene. Hanno sogni, emozioni, sentimenti. Non si può non tenerne conto, altrimenti non funziona. Non più. 
 
Da cosa dipende la capacità di un’azienda di funzionare bene, cioè di generare ritorni superiori alle medie di mercato?
 Principalmente dagli attivi immateriali. Le competenze distintive e i fattori critici di successo derivano da lì, così come la probabilità di successo di una strategia di sviluppo per linee interne e esterne. Se c’è un potenziale interesse di mercato, la difendibilità della proprietà intellettuale, nell’ambito degli attivi immateriali, rafforza la capacità dell’impresa di attivare gli strumenti tipici del mercato dei capitali, in primis il private equity, per sostenere le proprie strategie di sviluppo.               
 
Si spieghi meglio... 

 L’analisi statistica delle aziende nelle quali hanno investito fondi di private equity mette in evidenza come il maggior numero di operazioni riguardi investimenti finalizzati allo sviluppo, soprattutto in aziende dotate di brand riconosciuti dal mercato, che normalmente riflettono competenze distintive.               
Noi cerchiamo aziende che abbiano un futuro, più che un passato. E se entriamo vogliamo subito chiarire, con la proprietà e il management, le regole di governance, ledecisioni aziendali più rilevanti, che non vanno viste come un appesantimento della gestione, ma come una crescita della cultura d’impresa sotto il profilo della managerialità e dell’orientamento alla creazione di valore. Noi facciamo crescere le aziende, altrimenti non si può competere in uno scenario che è sempre più competitivo, sempre più globale, sempre più difficile. Combattiamo la resistenza culturale ad affrontare percorsi di crescita anche attraverso fusioni e acquisizioni.

E funziona davvero? O ci guadagnate solo voi? 
 La performance media in termini di rendimenti realizzati dalle imprese partecipate è sempre migliorata. Le performance positive indicano una creazione di valore di tutto rilievo nelle aziende partecipate da investitori finanziari. Ciò significa miglioramento della capacità competitiva e sviluppo dell’impresa. Da tutto ciò non traggono vantaggio solo gli investitori finanziari ma anche, a maggior ragione, gli imprenditori che hanno fatto ricorso agli strumenti di investimento offerti dal private equity. Aprire l’azienda al mercato dei capitali implica scelte impegnative per le piccole e medie imprese, mal’esperienza dimostra in modo evidente come il gioco valga la candela. Noi possiamo seguire e preparare anche business plan e due diligence, se necessario. In molti le guardano con sospetto, perché hanno un costo mediamente elevato, ma è un costo che viene recuperato cento volte, se sono fatte bene! Bisogna che ci sia molta chiarezza su questo punto. Spesso si è schiavi di luoghi comuni e convinzioni sbagliate. 

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Vale anche in Italia, dove le imprese sono spesso molto piccole e non associate tra loro? 
 Le criticità del mercato italiano sono riconducibili alle difficoltà di raccolta di capitali presso gli investitori istituzionali nazionali, al ridotto numero di operatori e di operazioni, allo scarso sviluppo di segmenti come operazioni di startup e di turnaround, alla scarsissima presenza di operazioni di hightech venture capital, oltre che alla scarsa diversificazione delle modalità di disinvestimento e alla disomogeneità territoriale degli interventi. Inoltre, il tessuto imprenditoriale italiano è composto prevalentemente da PMI che tendono ad essere sottocapitalizzate e gli imprenditori italiani aprono il capitale con riluttanza per paura di perdere il controllo o l’autonomia gestionale o l’indipendenza decisionale. Quest’ultima causa è legata quindi alla cultura degli imprenditori italiani, che si identificano con la propria impresa e la vivono come una propria creatura e la conducono come se dovesse durare per sempre sotto il loro controllo e la loro gestione. Spesso temono qualsiasi ingerenza in azienda e anche e soprattutto il mondo associativo. 
 
Però sono spesso iscritti a Confindustria o altre associazioni di categoria... 
 Perché organizzano ottime cene (ride, ndr). Le associazioni di categoria potrebbero e dovrebbero avere un ruolo fondamentale. Il networking può portare solo vantaggi, specie in contesti provinciali o territoriali, ma viene spessovisto più come un rischio che come un’opportunità. Anche in questo caso noi cerchiamo di far evolvere la mentalità delle imprese. Non è facile. Il ruolo dei cosiddetti “corpi intermedi” potrebbe e dovrebbe essere un booster fondamentale, anche il rischio a volte è che diventino essi stessi dei carrozzoni dove si va ad appendere il cappello tre volte all’anno, come Paperone al club dei miliardari di Paperopoli. Si cerca la nomina, la carica di relativo prestigio, ma a cosa serve? Se queste associazioni funzionassero bene, e in molti casi per fortuna è così, potrebbero sostenere moltissimo le imprese associate. Bisogna uscire dalla logica muscolare del fatturato, però. Non può esserci la prassi di mettere avanti realtà consolidate perché sono “importanti”, anche se magari non esattamente capaci di remare nella giusta direzione. Ma insomma, siamo uomini e questo è un discorso complesso, che richiederebbe un’intervista a parte… 

Faccia qualche esempio, per capirci meglio... 
 Ne potrei fare infiniti. Per esempio adesso sono molto attratto dal tema della mobilità sostenibile, come dicevamo all’inizio dell’intervista. E vorrei tanto che le associazioni di categoria, così come la politica locale, la seguissero insieme a noi. C’è tutto l’aspetto ecologico, di cui parlavamo prima, sempre più importante in un mondo che non regge più un certo tipo di emissioni. C’è l’aspetto imprenditoriale: quante opportunità ci sono in questo? Stiamo collaborando anche con le Università, da cui escono giovani brillanti e relative idee da plasmare nella giusta direzione. Come nell’evoluzione dell’e-commerce, che diamo per scontata, ma che scontata non è. E poi è tutto collegato, bisogna avere una visione d’insieme. Speriamo che tutte le parti in causa riescano a trovare un equilibrio e a migliorarsi, come noi siamo consapevoli di doverci migliorare costantemente. Non possiamo rimanere ancorati al vecchio. Mai! 
 
Lei saprebbe far meglio? 
 Rispetto a cosa? Non parlo di meglio o peggio. Io saprei far bene nel mio settore. E lo faccio, spero. Anche se spesso mi accorgo di un errore tutto mio: a questa domanda non avrei dovuto rispondere con “IO”, ma con “Brian and partners”. Perché è Brian and partners che fa, non Andrea Bricchi. Questo è fondamentale. Sto imparando. Continuo a imparare. Il giorno in cui penserò di non aver più niente da imparare andrò in pensione, a coltivare viti e a pescare. 
 
A proposito, cosa fa nel tempo libero, se ne ha? 
 Non me lo chieda, la prego! Non ne ho molto e faccio moltissime cose, il che spesso viene mal interpretato. Come organizzo aziende, così organizzo la mia vita. Il tempo c’è per tutto, se ci si sa programmare bene.