Cinque libri da leggere a novembre 2023
Italiani e stranieri, bestseller ed esordienti, saggi e narrativa: ecco le nostre proposte per il mese di novembre
Tra le molte pubblicazioni che sono apparse in libreria nei mesi scorsi e all’inizio di novembre, abbiamo selezionato cinque titoli che, dopo averli letti, ci sono sembrati meritevoli di essere consigliati. Ecco i nostri suggerimenti da leggere tra una castagnata e una cioccolata calda.
1) La luce che manca di Nino Haratischwili (Marsilio)
Se a qualcuno non si fosse ancora accesa una lampadina, ricordiamo che Haratischwili è l’autrice di L’ottava vita (per Brilka), un bestseller in testa alle classifiche mondiali per mesi, tradotto in venticinque lingue, candidato all’International Booker Prize e vincitore di altri premi prestigiosi, presto sullo schermo grazie a una serie televisiva in lavorazione. Il successivo romanzo della scrittrice georgiana, che è già una delle penne più acclamate del pianeta a soli 40 anni, era atteso con molta curiosità dai lettori di ogni dove, Italia compresa. È stato finalmente pubblicato nel nostro Paese nel mese di settembre da Marsilio, con il titolo La luce che manca: la prima cosa che si nota è la mole del volume, come d’altra parte accadeva per il suo predecessore; circa 700 pagine in cui immergersi per una lettura che richiede apertura mentale e concentrazione, ideale peraltro in un mese di transizione verso l’inverno come novembre.
La luce che manca è molte cose insieme, tutte di grande interesse e fortemente attuali. In primo luogo è un romanzo sull’amicizia e sul potere dei legami interpersonali, anche quando questi si trovano a dover affrontare prove difficili. Protagoniste della storia sono infatti Qeto, Dina, Nene e Ira, quattro bambine georgiane che diventano inseparabili; è la magia della “sorellanza” che consente loro di scovare momenti di gioia e tenerezza in un Paese devastato dalla guerra, dalla crisi politica, dal dissesto economico e dalla corruzione. Nella povertà, nella semplicità, nella mancanza persino delle cose basilari, la loro piccola comunità si rinsalda e va avanti forte, compatta, per lo meno fino a quando un evento inatteso minerà il gruppetto dalle fondamenta, senza però riuscire a disintegrarlo. Secondariamente – e in maniera correlata al primo punto – questo è un romanzo femminista, non soltanto perché le voci narranti, nonché i punti di vista, sono quelli di quattro bambine poi divenute adulte, ma soprattutto per il messaggio veicolato, secondo cui è attraverso l’unione solidale che l’elemento femminile può farsi strada nella vita. Non solo: quando tre di loro si ritrovano da adulte a Bruxelles, è per partecipare alla retrospettiva fotografica di Dina, che a suo modo è riuscita a farsi notare e a lasciare delle tracce indelebili, nero su bianco. È quindi la storia di un riscatto tutto al femminile, sebbene in realtà Dina sia la grande assente, il vuoto da colmare.
In terzo luogo, e qui ci fermiamo perché le tematiche e le digressioni potrebbero essere davvero moltissime, La luce che manca è il ritratto di una Georgia costretta a fare i conti con il dominio russo e con la crisi dell’Unione Sovietica. Se è vero che i temi dell’amicizia e del femminismo fanno sempre presa sui lettori, è forse però proprio l’aspetto storico, basato su un ricco lavoro di documentazione e sull’esperienza personale dell’autrice – che non a caso ambienta i fatti proprio nella città di Tbilisi, dove è nata e cresciuta prima di trasferirsi in Germania –, ciò che risulta più stimolante dal punto di vista intellettuale e culturale. La Georgia è una nazione a poca distanza da noi, che negli ultimi anni è divenuta meta del turismo di massa persino a basso costo; tuttavia, la maggior parte degli italiani (e probabilmente degli europei) non sa quasi nulla del suo passato, di ciò che gli abitanti hanno vissuto nei decenni scorsi e di come ancora oggi il Paese fatichi a decollare. Se è vero che per l’autrice La luce che manca è quel raggio che a un certo punto illumina il passato per portare in superficie la verità, la si può interpretare anche come il riflettore che una scrittrice di successo accende su un territorio vasto, ricco, con molto da offrire, eppure poco conosciuto, studiato, visitato.
Detto ciò, la particolarità di questo libro impegnativo ma altamente gratificante è la scrittura di Haratischwili, la quale – come nel suo romanzo d’esordio – è una maestra nel riuscire a gestire numerose situazioni parallele, una mole di personaggi che intrecciano tra loro le proprie vicende, fili narrativi principali e secondari, salti temporali che richiedono l’attenzione massima del lettore per non perdersi nei meandri della trama. A parlare in prima persona è Qeto, sebbene la vera stella brillante – nella sua assenza – sia Dina, la quale racconta una storia parallela attraverso le proprie immagini. Se da una parte non si può non restare colpiti dallo stile di scrittura innovativo e avanguardistico dell’autrice, che può piacere moltissimo oppure no, dall’altra il valore di questo grande affresco che scorre con un ritmo volutamente lento è la bellezza delle istantanee: scorci di vita nei sobborghi della città, odori e colori di una Georgia ormai scomparsa per sempre, pericoli, momenti di passione ed erotismo, sperimentazione, la povertà senza veli, le descrizioni così veritiere dei vicoli, delle piazze, delle case, persino delle pareti. In questo modo l’autrice ci permette di tornare indietro nel tempo per scoprire un mondo da conoscere e apprezzare, pur nelle sue mille contraddizioni.
“La luce della sera le si impigliava tra i capelli. Ce l’avrebbe fatta, avrebbe superato anche quell’ostacolo, avrebbe premuto con tutte le sue forze il corpo contro la cancellata, che avrebbe continuato a opporre una debole resistenza al suo peso e poi, con un sospiro, avrebbe ceduto. Sì, avrebbe forzato quell’ostacolo non solo per sé stessa ma anche per noi tre, per aprire la strada verso l’avventura alle sue inseparabili compagne.Per una frazione di secondo trattenni il respiro. Osservavamo a occhi spalancati la nostra amica che si trovava tra due mondi: un piede ancora sul marciapiede di via Engels, l’altro già nel buio cortile interno dell’Orto botanico; oscillava tra il lecito e il proibito, tra il prurito dell’ignoto e la monotonia del consueto, tra la strada di casa e l’azzardo. Era la più coraggiosa di noi quattro e ci stava aprendo un mondo segreto in cui lei sola era in grado di farci entrare, perché per lei inferriate e recinti erano privi di significato. Era Dina, che nell’ultimo anno di quel secolo di piombo, malato e boccheggiante, sarebbe finita con un cappio al collo, un cappio improvvisato con la fune di un anello da ginnastica”.
Lo consigliamo perché: Nino Haratischwili è tra le più quotate scrittrici contemporanee, in grado di dare vita a uno stile particolare e unico nel suo genere. Avvicinarsi alla sua arte narrativa è un’esperienza che ogni lettore di oggi dovrebbe fare, a prescindere dall’esito della sperimentazione.
2) Vicolo Sant’Andrea 9 di Manuela Faccon (Feltrinelli)
Ci piace dare spazio anche agli autori esordienti, quelli che non hanno già venduto milioni di copie ma sono all’inizio della loro carriera come scrittori e proprio per questo rappresentano delle voci nuovi da ascoltare. Una di queste è Manuela Faccon, che ha già una formazione di tutto rispetto alle spalle in ambito storico e universitario, ha pubblicato due libri, molti articoli ed è anche insegnante. Questa è però la prima volta che approda alla narrativa con una casa editrice importante come Feltrinelli e lo fa raccontando la storia di una donna all’apparenza semplice, ordinaria, ma in realtà più misteriosa e complessa di quanto si possa pensare a prima vista. Ecco uno degli aspetti su cui Vicolo Sant’Andrea 9 ci porta a riflettere: chi è davvero la portinaia del palazzo accanto? Nessuno sembra fare caso a lei, che peraltro non intende catturare l’attenzione vestendo sempre in modo dimesso; la si potrebbe catalogare in pochi secondi come una persona insignificante e andare oltre, ma è proprio dietro la normalità che a volte si nascondono situazioni avvincenti inaspettate. Ecco perché non ci dovrebbe mai fidare della prima impressione, e forse neppure della seconda.
Il romanzo della Faccon è ambientato in parte negli anni Cinquanta e presenta una trama ricca di eventi, colpi di scena, segreti, dettagli storici. Teresa, la protagonista a cui abbiamo accennato sopra, viene infatti scelta dalla donna per cui lavora per prendersi cura del suo bambino Amos, quando i fascisti arrestano tutta la sua famiglia ebrea. A soli sedici anni le piomba quindi addosso una responsabilità immensa, alla quale non riesce a dar seguito perché qualcuno ha assistito all’arresto ed è pronto a tradirli: Teresa non fa neppure in tempo ad affezionarsi al bambino che già le viene portato via, mentre lei finisce rinchiusa in un manicomio. L’autrice compie quindi un salto temporale all’età adulta, precisamente a quando la vita le concede una possibilità di riscatto, di pareggiare i conti; perché in fondo lei quel bambino non lo ha dimenticato e non ha mai smesso di cercarlo. “La ricerca di Amos sarà ciò che farà di Teresa la donna forte che poi nel romanzo diventerà. In questi anni frugherà tra le carte delle signore che le offrono un impiego come portinaia, troverà qualche indizio e alla fine riuscirà ad individuare un bimbo dell’età di Amos, il neonato ebreo che lei aveva portato in salvo. Proverà ad avvicinarsi a questo bambino, ma scoprirà che non sarà affatto facile” ha spiegato l’autrice a Rai Cultura.
Ancora una volta non possiamo che sottolineare la volontà di far emergere la forza e la caparbietà delle donne in un’ottica femminista, in questo caso utilizzando lo stratagemma di non rendere queste doti palesi sin dalle prime pagine – Teresa non appare di certo come un’eroina da film – ma svelando il coraggio e la lealtà della protagonista pagina dopo pagina, senza dimenticare di mettere bene in evidenza che cosa comporti essere una persona integra e dignitosa nella società contemporanea, come pure nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Il romanzo possiede una solida base storica, che emerge anche nella capacità di indagare il quotidiano degli anni Quaranta e Cinquanta, ovvero le vite delle persone normali, meno in vista, ciascuno a suo modo colpito dal fenomeno del Fascismo, dalle leggi razziali e poi dal conflitto mondiale. Dunque una corposa documentazione che l’autrice tende a sottolineare: “Cercare e studiare tutto questo è stato un lavoro lungo, che mi ha fatto passare molte ore con l’interesse puntato su una storia che non conoscevo a fondo”. In particolare, la Faccon si è concentrata su Padova, dove le vicende sono ambientate; specie sul passato della città durante e dopo la guerra, riportando quindi in luce una pagina interessante della storia italiana.
Lo consigliamo perché: è un’ottima proposta editoriale di un’autrice esordiente ma già formata che farà probabilmente ancora parlare di sé, oltre a permetterci di conoscere meglio un luogo e un’epoca di cui non si è scritto molto fino ad ora.
3) MANIAC di Benjamín Labatut (Adelphi)
Benjamín Labatut, autore olandese trasferitosi in Cile, ci ha sorpresi nel 2021 con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, un esperimento letterario decisamente meritevole che ha vinto il Premio Galileo 2022 e ha venduto milioni di copie nel mondo. La sua idea originale e in perfetta sincronia con i tempi era stata quella di narrare – attraverso una serie di racconti – la fisica, la chimica, la matematica, la meccanica quantistica e in generale le scienze attraverso i ritratti di alcuni personaggi significativi del Novecento. Al di là dell’interesse che la società attuale mostra per tali materie e per alcune significative scoperte che hanno rivoluzionato il mondo, il fulcro della sua opera stava nell’indagare il legame tra la teoria e l’applicazione pratica della stessa, privilegiando tutte quelle situazioni in cui il progresso scientifico ha comportato un aumento della crudeltà e della disumanità, specie durante una guerra. Dunque, il punto chiave del libro era capire in che modo le scienze hanno influenzato il corso della storia, dalla nascita del cianuro – molto utilizzato dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale e nelle camere a gas degli ebrei – all’uso delle armi chimiche, dalla bomba atomica alle conseguenze dei progressi svolti nell’ambito della fissione e della fusione nucleare.
Con il nuovo libro MANIAC, di recente pubblicazione per Adelphi, Labatut torna ai temi che tanto hanno interessato lui e i suoi lettori, ma decidendo di focalizzarsi su una scoperta specifica e un personaggio in particolare. Non si tratta ancora di un romanzo, perché la conoscenza dei singoli fatti e delle attitudini caratteriali del protagonista emerge attraverso le numerose voci di chi visse a stretto contatto con lui, o dei colleghi che in qualche modo influenzarono o furono influenzati dal suo lavoro; ciò nonostante, alla fine della lettura ne risulterà una biografia completa. Il titolo, però, intende mettere in evidenza l’importanza del suo lavoro prima ancora che della sua vita: MANIAC è infatti un calcolatore universale totalmente rivoluzionario e decisivo per la nostra generazione, in quanto pose le basi del successivo sviluppo dell’informatica, della logica e dell’intelligenza artificiale. Lo realizzò un individuo creativo, visionario e fuori dalle righe – come d’altra parte tutti i personaggi scelti da Labatut per il suo primo libro – il cui nome è John von Neumann, il quale lavorò a questa immensa opera alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’autore ha un modo di concepire il racconto storico alternativo e interessante, perciò non bisogna commettere l’errore di pensare che von Neumann sia l’unico protagonista di questa opera. MANIAC è un pretesto per parlare di molto altro e per continuare in maniera ideale il lavoro già iniziato in Quando abbiamo smesso di capire il mondo: se in quel caso il rischio concreto della nostra estinzione come specie e della distruzione dell’ambiente in cui viviamo era connesso ai progressi della fisica e della chimica, con un particolare riguardo alle armi nucleari, qui andiamo oltre, varcando la frontiera della contemporaneità e gettando uno sguardo al futuro. Sappiamo tutti, infatti, che la nuova sfida si sta combattendo sul piano digitale, a fronte di un’intelligenza umana desiderosa di superare sé stessa creando qualcosa di immensamente potente ed evoluto, ma mantenendo l’illusione di poterlo controllare. È per questo che leggere un libro come MANIAC non significa soltanto documentarsi – stupendosi ad ogni pagina – per le nozioni che ci vengono date a proposito di come elementi o strumenti per noi oggi dati per scontati siano stati concepiti, da dove sia iniziato lo studio per renderli concreti e cosa si nasconda dietro ad esso. Oltre a tutto ciò, Labatut apre una riflessione tanto attuale quanto terrificante in merito a come utilizzeremo il sapere a cui stiamo giungendo, guardando in faccia fantasmi che potrebbero effettivamente diventare una realtà.
I libri di Benjamín Labatut hanno anche un altro pregio che qui vogliamo sottolineare: sono scritti benissimo, con una narrativa piacevole ed elevata. Da una parte l’autore riesce a raccontare materie notoriamente complicate in una forma semplice e accessibile anche a chi non abbia grandi competenze di fisica quantistica o di informatica, dall’altra utilizza uno stile coinvolgente, quasi poetico, come se attraverso la propria scrittura intendesse sottolineare l’unione e la complementarietà tra scienza ed arte. In fondo, in passato non esistevano le discipline così come le intendiamo oggi, ma i grandi pensatori possedevano competenze in ogni ambito: basti pensare a Leonardo da Vinci, che si interessava di pittura, di arte figurativa e al tempo stesso di medicina, di chimica, di architettura, di progettazione bellica e molto altro.
Anche in questo libro, come nel precedente, la guerra è un’ombra che segue sempre la vita dei protagonisti, si intreccia ad essa, la modifica e talvolta crea degli strappi o delle lacerazioni interiori tali da far sì che tutto all’improvviso cambi e per i nostri geni della matematica o della fisica o dell’informatica diventi impossibile continuare a lavorare come prima. Questo accade perché toccano con mano la morte e la distruzione che la teoria può portare se male applicata. Così, Labatut ci mette ancora una volta in guardia sui rischi che stiamo vivendo, sull’orlo dell’abisso in cui ci troviamo senza accorgercene e racconta da un lato tutta la meraviglia delle nuove frontiere dell’epoca digitale, dall’altro i pericoli annidati nella sua stessa essenza.
“Prima che von Neumann diventasse indifferente a tutto e si rifiutasse di parlare con amici e parenti, gli chiesero cosa sarebbe stato necessario perché un calcolatore, o qualsiasi altra entità meccanica, cominciasse a pensare e comportarsi come un essere umano”.
Lo consigliamo perché: è un’opera a suo modo geniale, ben scritta, che lascia tante riflessioni aperte e ci porta a chiederci cosa il futuro abbia in serbo per noi. Inoltre, è una maniera insolita di scoprire un personaggio – e insieme ad esso molti altri – forse non ancora sufficientemente noto.
4) La rosa di Castiglia di Carol McGrath (Tre60)
Continua da parte della casa editrice Tre60 la pubblicazione di romanzi storici dedicati alle grandi donne del passato: regine, principesse, amanti e favorite di illustri sovrani. In questo caso la protagonista di una recente pubblicazione a cura della scrittrice Carol McGrath è Eleonora di Castiglia, poi passata alla storia come La rosa di Castiglia. Visse dal 1241 al 1290, quindi in pieno Medioevo, e si dice che fosse bellissima; non a caso da lei il principe e poi re d’Inghilterra Edoardo I si separò raramente durante i lunghi anni del matrimonio, solo quando indispensabile. Già questo basterebbe per rendere la sua vita romantica e fuori dal comune, in quanto quasi mai i matrimoni di convenienza organizzati dalle varie dinastie europee portavano con sé una qualche forma se non di amore, per lo meno di affetto. I due coniugi, invece, erano davvero molto legati e insieme ebbero ben sedici figli, di cui tuttavia solo sei raggiunsero l’età adulta.
L’autrice Carol McGrath, che gli appassionati di romanzi storici conosceranno bene, si è mantenuta anche questa volta fedele alle vicende reali e ai fatti, pur raccontandoli con un piglio narrativo leggiadro e accattivante. L’elemento della fiction non manca, tuttavia la McGrath non soltanto è laureata in Storia con una solida preparazione sul Medioevo inglese, ma è anche considerata una delle scrittrici di genere più famose del Regno Unito, nonché collaboratrice della Historical Novel Society. Le sue opere hanno sempre riscosso un ampio interesse nel pubblico, ma con La rosa di Castiglia ha scalato le classifiche internazionali, grazie anche alla fascinazione esercitata dalla sua protagonista. Le origini di Eleonora erano altamente nobili: basti dire che discende in linea diretta da parte di padre dalla celebre Eleonora d’Aquitania. La sua fu una famiglia di donne forti, spesso lasciate sole al comando o tenute prigioniere durante guerre e ribellioni, pertanto chiamate a prendere decisioni importanti anche in assenza dei propri mariti, pronte a tutto pur di sopravvivere.
Il romanzo si apre con un breve prologo ambientato a Lewes nel 1264 e subito dopo con il primo capitolo, dove troviamo Eleonora nel giorno della festa di San Giovanni presso il Castello di Windsor, il 24 giugno 1264. La precisione delle date ci dà un’idea dell’immenso lavoro di documentazione compiuto dalla McGrath prima di scrivere questa storia, riuscendo ancora una volta a far emergere dall’oscurità fatti, figure e vicende fondamentali della storia inglese, altrimenti dimenticate. Attorno alla figura di Eleonora, infatti, ruotano come sempre i potenti uomini della corte, i nobili schierati a seconda della propria convenienza di cui non ci si può mai fidare e i nemici, alcuni dichiarati altri nell’ombra. Ad ognuno di essi l’autrice dà un volto, una personalità ben definita, un ruolo chiave nella trama, creando quindi un grande affresco che bene rappresenta l’epoca dei fatti. Nello specifico, quando il libro ha inizio si è appunto verificata la ribellione dei baroni capeggiata da Simone di Montfort, pertanto Eleonora si trova in una posizione rischiosa di svantaggio: è prigioniera e perde una delle sue figlie, senza neppure poter contare sul sostegno del marito, il cui destino è fortemente incerto.
La vita di Eleonora di Castiglia non fu mai una spensierata esistenza, cosa alquanto comune per chi ricopriva il ruolo di principessa o regina. Lei, però, fu particolarmente sfortunata, tra le numerose morti dei figli, le guerre e le ribellioni che dovette affrontare, una crociata che si risolse in un fallimento e in seguito le numerose difficoltà per mantenere il regno, cercando più volte alleanze con la vicina Francia. Eleonora era anche una donna colta e cresciuta in un ambiente stimolante, in quanto le corti dei Castiglia erano conosciute in tutto il mondo per accogliere artisti e letterati da ogni dove, divenendo cuori pulsanti del fermento creativo dell’epoca. Pur tornando più volte sul passato della giovane principessa nel corso del romanzo, uno dei motivi per cui l’autrice si concentra sulla sua vita dal 1264 in poi è la quasi totale mancanza di informazioni a proposito di Eleonora fino al 1260, anno che passò alla storia poiché scoppiò la Seconda Guerra dei Baroni.
Scrive di lei Carol McGrath, che ovviamente ne ha subìto il fascino prima ancora dei suoi lettori: “Eleonora di Castiglia fu una regina e una donna eccezionale. (…) Era colta ed era senza dubbio una donna intellettuale. Sposò Edoardo a soli dodici anni e diede alla luce circa sedici figli. (…) Un altro aspetto del carattere di Eleonora fu il suo rimanere vicina a Edoardo per tutto il loro matrimonio, a parte per le forzate separazioni durante l’anno del regno di Simone di Montfort. Fu anche ossessionata dal dovere per tutta la vita”. Leggendo queste pagine una dopo l’altra, in cui si susseguono i colpi di scena, le fughe, i tradimenti in contrasto con la lealtà, la lotta dei due coniugi talvolta contro tutto e tutti, scoprirete un personaggio femminile all’avanguardia rispetto al suo tempo, con la particolarità di essere molto amata dai suoi sudditi. Sin da giovane, infatti, un po’ grazie alla sua discendenza, in parte per la sua delicata bellezza e in seguito anche per il carattere forte che dimostrò di possedere, Eleonora venne presa a ben volere dal popolo inglese, in genere difficile da ammaliare, e seppe coltivare questa simpatia per tutta la sua vita. Ripercorrerla grazie alle parole della McGrath è un vero piacere, oltre che una preziosa crescita culturale.
Lo consigliamo perché: i romanzi storici pubblicati da Tre60 sono sempre una garanzia, grazie anche alle autrici di alto livello e dichiarata fama. In questo caso il personaggio di Eleonora di Castiglia merita ancor più di essere conosciuto in tutta la sua complessità, grazie a una ricostruzione storica fedele e accurata.
5) La vita è bella, nonostante di Sveva Casati Modignani (Sperling & Kupfer)
Chiudiamo con un romance che per molte lettrici è sempre un’ottima idea, a novembre come in qualunque altro mese dell’anno. Sveva Casati Modignani non ha davvero bisogno di presentazioni, con una mole non indifferente di libri scritti, apprezzata al punto di aver venduto oltre dodici milioni di copie in venti Paesi. L’Italia è ovviamente al primo posto, tanto che le sue fan conoscono ormai come le proprie tasche le quattro protagoniste del suo nuovo romanzo La vita è bella, nonostante. È uscito da poco per Sperling & Kupfer in un formato originale, quasi tascabile ma con copertina rigida: si tratta dell’atto finale (ma il forse è dovuto) delle avventure che hanno visto piangere, ridere, emozionarsi e soffrire Carlotta, Andreina, Gloria e Maria Sole. Già protagoniste di altri suoi romanzi di successo come Festa di famiglia, Segreti e ipocrisie o L’amore fa miracoli, le quattro inseparabili amiche si ritrovano ormai ad essere donne mature in grado di scegliere consapevolmente ciò che è meglio per le proprie vite. Si appoggiano come sempre l’una all’altra, tanto che viene da stabilire una connessione con l’amicizia a quattro con cui abbiamo iniziato questo speciale. Da Haratischwili alla Modignani, generi e stili molto diversi tra loro si appassionano allo stesso tema del femminismo, della solidarietà tra donne, della sorellanza che unisce e rende più forti. Cambiano i personaggi, ma il concetto di fondo resta lo stesso.
Colpisce anche il titolo del libro – La vita è bella, nonostante –, dove per la prima volta Sveva lascia l’aura romantica e perfetta della vita da sogno, amore compreso, per ammettere che in fondo i percorsi delle nostre travagliate esistenze non sono mai come nelle favole; certo, fa bene sognare ed è giusto farlo nei limiti del buon senso, ma la vita reale è altro rispetto a quanto leggiamo nei libri, o vediamo nei film, o ultimamente osserviamo sui social. Essa è un susseguirsi di eventi che non sempre vanno nella direzione sperata e per molte purtroppo il colpo di scena verso l’happy ending non avviene; la vera bellezza sta allora nel godersi ogni singolo istante, nell’esserci, nel percorso stesso, anche quando esso si fa accidentato o non porta esattamente dove avremmo voluto. Un bel messaggio che ha già conquistato migliaia di fan, attive sui gruppi di lettura, sui social, nonché attraverso le tante attività che sostengono da anni il lavoro della Modignani. Questo romanzo, insomma, ha già incontrato il favore del pubblico.
A proposito dell’amicizia tra donne, che smette di essere una chimera solo se si accettano le sue inevitabili mancanze e imperfezioni, l’autrice ha affermato qualche anno fa: “Esiste davvero quando c’è ed è molto importante perché storicamente il sistema maschilista ha sempre favorito l’atteggiamento di mettere le donne le une contro le altre. Ma di fatto, capendo prima ancora di noi che quando vogliono le donne riescono a fare un ottimo gioco di squadra, gli uomini ne hanno implicitamente riconosciuto la forza. D’altra parte è risaputo che il sistema maschilista non ami molto le donne forti”. Proprio come Carlotta, ad esempio, che in questo ultimo libro della serie si trova a dover affrontare la tragica morte del marito, del tutto inattesa: pur soffrendo disperatamente, non si lascerà sopraffare dal dolore e, grazie anche al prezioso aiuto di Maria Sole, riuscirà a superare a poco a poco il grave lutto. Ma è forte anche Andreina, che ogni giorno si prende cura della piccola Viviana senza un padre a completare la “famiglia”, o Gloria, quando è pronta a mettersi in gioco e a rivalutare il lungo rapporto con Sergio.
In copertina troviamo un mazzo di rose rosse e bianche, con quattro scatoline contenenti quattro anelli: il titolo e il contenuto del libro saranno forse meno romantici, ma la veste grafica resta sempre un sogno. Come per tutti i libri della Modignani, la lettura procede con leggerezza e velocità, passando attraverso capitoli che portano il nome delle quattro protagoniste e si focalizzano ciascuno su una donna in particolare. Il quattro sembra essere il numero fortunato dell’autrice, poiché con questa serie è rimasta in testa alle classifiche per anni; ora, però, si prospettano quattro finali diversi per chiudere le fila rimaste aperte. Tuttavia, preferiamo sperare nella possibilità di un ulteriore seguito o magari di qualche spin off, perché di certo l’autrice sa bene che alle sue lettrici le quattro amiche mancheranno terribilmente.
Lo consigliamo perché: con la Modignani le amanti del genere e dell’autrice vanno ormai sul sicuro, sia per un regalo che per sé stesse. Non delude mai le aspettative di chi la conosce bene e sa cosa aspettarsi da lei.