Cinzia Tani, ultimo libro: "La pena di morte è solo una vendetta di stato"
Cinzia Tani, signora in giallo della storia, pubblica con Vallecchi il nuovo libro, "L'ultimo boia", in cui riflette sulla pena di morte
L'ultimo boia, nuovo libro di Cinzia Tani, racconta la vita di Albert Pierrepoint e riflette sulla pena di morte. L'intervista di Affaritaliani.it
Come la mirabolante Jessica Fletcher della Signora in giallo, Cinzia Tani, giornalista nonché volto televisivo - sia in proprio (ha condotto per varie stagioni Il Caffè di Rai1) sia come richiesta opinionista - se ne va a zonzo per la storia e le storie, perlopiù criminali, per ricavarne titoli su titoli.
È infatti una delle più prolifiche scrittrici di casa nostra. Dopo vari libri con Rizzoli e Mondadori, è la volta di un marchio prestigioso come Vallecchi Firenze per il quale ha prodotto L’ultimo boia, che potremmo ascrivere alla docu-narrativa.
Un lavoro certosino nella ricostruzione delle gesta capitali di Albert Pierrepoint, pubblico giustiziere inglese morto nel 1992, che soppresse circa seicento persone nel corso della sua carriera di omicida legalizzato.
Chiediamo perciò alla Tani che tipo di lavoro ha svolto per scrivere questo libro, che tra l’altro ripropone un interessante riflessione sulla pena di morte: "Come per tutti i miei libri, per la maggior parte romanzi storici e biografie, faccio lunghissime ricerche. Ho le autobiografie di Albert Pierrepoint e di suo padre, articoli di giornale, documenti vari. Anche i libri contro la pena di morte, come il pamphlet di Albert Camus e Arthur Koestler. Per i casi criminali mi sono serviti molti libri che ho acquistato e anche quelli che posseggo da anni sul True Crime. Una biblioteca gigantesca".
C’è anche un film sul personaggio protagonista, The last hang man, lo ha visto?
Certo, un film del 2005 anche premiato al festival di Toronto. Racconta molto bene la vita di Pierrepoint, i suoi rapporti con la moglie, i metodi che usava per giustiziare i condannati. Ho anche usato alcune immagini per il book trailer che ho realizzato.
Che uomo è stato Pierrepoint, si è fatta un’idea?
Un uomo mite. Amava moltissimo i genitori e gli zii. Aiutava in casa, ha lasciato gli studi per lavorare e dare una mano alla madre dopo la morte del padre. Ha corteggiato con delicatezza la donna che poi ha sposato. Si è rammaricato di non avere figli ma aveva moltissimi amici, soprattutto dopo aver aperto il pub. Ha amato la moglie fino all’ultimo momento. Un uomo molto umano che soffre quando si rende conto che un condannato era un cliente fisso del suo pub. Un uomo che credeva di avere una missione importante e che poi, riflettendo, ha capito che la pena di morte non è altro che una vendetta di stato.
Da dove nasce la sua quasi ossessione per il crimine?
Non sono né ossessionata dal crimine, né appassionata ai casi di cronaca nera. Non ho mai amato la nera fino a un giorno in cui a Londra ho visto in una libreria tanti volumi sui delitti femminili. Nei miei libri cerco sempre un argomento o una storia poco trattati, sia perché voglio approfondirli personalmente, sia perché voglio divulgarli.
Così tanti anni fa ho deciso di scrivere Assassine per raccontare gli omicidi femminili. Quando è uscito il libro non si parlava quasi della donna che uccide, era un tabù. Allora ho continuato, anche insegnando alla Sapienza Storia Sociale del Delitto, per raccontare i vari fenomeni dell’omicidio: la coppia che uccide, il femminicidio, i delitti nati da una falsa idea dell’amore e così via.
Perché, più che altro, racconta crimini realmente accaduti e non storie di fantasia?
Anche nei miei romanzi ci sono a volte dei delitti e sono ovviamente frutto della mia fantasia, ma nei libri biografici, come in questo, in cui racconto una storia vera anche i crimini devono essere veri. Si tratta delle persone che Pierrepoint ha giustiziato, come le Bestie di Bergen-Belsen, gli aguzzini nazisti. Di questi e altri assassini narro tutta la vita, l’ambiente in cui sono cresciuti, la famiglia, le amicizie e i processi nei dettagli. Non voglio raccontare storie morbose ma cercare di capire perché un individuo ha commesso delle atrocità.
Come definirebbe la sua produzione che non è propriamente letteraria?
Biografica. Assassine, Coppie assassine, Amori crudeli e altri libri del genere raccontano la vita e i processi di criminali. Ho scritto però altri libri biografici: Donne pericolose parla delle spie donne della prima e seconda Guerra Mondiale; Darei la vita racconta la storie delle compagne dei geni; Angeli e carnefici mette a confronto coppie di donne nate lo stesso anno: una diventa una stella della scienza, cinema, danza, politica, etc., e l’altra un’assassina. Ho voluto focalizzare l’attenzione su chi siamo: più figli della genetica o dell’ambiente? In ogni caso, sia nei romanzi che nelle biografie, la base da cui parto è sempre la Storia.
Il suo libro è anche una condanna alla pena di morte. Che sentimenti la colgono quando legge di esecuzioni, ad esempio negli Stati Uniti?
Faccio parte da anni della ONG Nessuno Tocchi Caino, contro la pena di morte. Mi sento male quando leggo di persone giustiziate anche nella civilissima America. Quello che succede in Texas e in altri stati USA è aberrante. Considerando anche che negli ultimi anni, per il grande lavoro dell’Innocence Project, sono state scoperte (usando le ultime tecnologie, soprattutto il test del DNA) persone innocenti che si trovano da anni nel braccio della morte.
La postfazione è di Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino e vorrei che il libro facesse riflettere sulla pena capitale. Come ha riflettuto Albert Pierrepoint che, dopo tanti anni in cui è stato il più famoso e richiesto Pubblico Giustiziere d’Europa, ha affermato: “La pena capitale, a mio parere, non risolve nulla, soddisfa soltanto un desiderio primitivo di vendetta.”