Il ritorno in libreria di “Gelo”, di Thomas Bernhard, edito da Adelphi

Un libro ormai introvabile viene ripubblicato da Adelphi: “Gelo”, l'opera che rivelò al mondo il talento di Bernhard

di Chiara Giacobelli
Libri & Editori

Thomas Bernhard è stato una figura centrale nel mondo letterario del ventesimo secolo: poeta, romanziere, drammaturgo e giornalista.

Uno scrittore immediatamente riconoscibile, dotato di uno stile unico, affannoso e tormentato, con frasi che si avviluppano su sé stesse, parole che si ripetono ritmicamente, dialoghi densi che inchiodano il lettore alla pagina e alla riflessione interiore. È ancora attuale? Che posto può occupare un autore del genere nel panorama editoriale odierno? Vengono stampati centinaia, migliaia di volumi ogni mese “recensiti” in video di 30 secondi su TikTok o da aspiranti critici su YouTube; è il sentito dire, il passaparola autentico o debitamente orchestrato dalle nuove frontiere del marketing social, a creare ormai un vortice continuo di novità, all’interno del quale tutto finisce presto sostituito (e dimenticato) dalle ultime uscite. In questo contesto, la scelta di Adelphi di ristampare Gelo è coraggiosa e apprezzabile. Si tratta di un testo che merita sicuramente di appartenere al prestigioso catalogo della casa editrice, ultimo rifugio dall’oblio per molti grandi autori e capolavori della letteratura. Tornando alla più che lecita domanda sull’attualità di Bernhard, ci sentiamo di rispondere affermativamente. L’autore parla infatti degli aspetti più intimi dell’esistenza umana: la solitudine, il dolore, l’alienazione di fronte al mondo – sia esso natura o cultura – a cui non apparteniamo mai davvero, la morte. Sono tematiche senza tempo, che ogni essere umano prima o poi si trova a dover affrontare, almeno nella propria interiorità.

La trama di Gelo è piuttosto semplice: un giovane assistente di medicina accetta l’incarico del suo superiore, il dottor Strauch, di recarsi in incognito presso il fratello di questi, il pittore Strauch, ritiratosi a Weng, uno sperduto paese montano. I due non hanno più alcun contatto da anni, ma il medico sospetta che il fratello sia progressivamente scivolato nella follia. Il giovane assistente guadagna a poco a poco la fiducia del pittore spacciandosi per uno studente di giurisprudenza e lo accompagna in interminabili passeggiate nella valle desolata, ghiacciata e immota, dove sorge Weng. Uno dei temi centrali del libro è la solitudine: «La mia famiglia, i miei genitori, tutto, il mondo intero al quale avrei voluto aggrapparmi, per me già molto presto si è dissolto nelle tenebre, è stato inghiottito dalle tenebre, si è sottratto ai miei sguardi oppure sono stato io ad allontanarmi, a ritirarmi, a ritirarmi nelle tenebre. Non lo so esattamente. Ad ogni modo sono stato lasciato solo molto presto, forse sono stato solo da sempre.[...] La mia infanzia e la mia giovinezza sono state una solitudine tanto crudele quanto la mia vecchiaia è una solitudine orrenda. Come se la natura avesse il diritto di respingermi continuamente, di darmi sempre addosso, di rigettarmi dentro me stesso, di scacciarmi lontano da tutti, di scaraventarmi addosso a tutto, ma sempre soltanto fino all’orlo». È un gelo viscerale, fisico quello della solitudine, che accompagna il protagonista da sempre e che è perfettamente rispecchiato dal gelo esteriore che stringe nella sua morsa Weng, il piccolo paese incastrato in una valle inospitale, buia, immobilizzata da una coltre di ghiaccio e neve.


 

Il pittore Strauch ha tentato, ha cercato, vorrebbe provare un senso di appartenenza a qualcosa, sentire del calore, credere che gli alti ideali di cui parlano i filosofi abbiano un riscontro nella realtà, ma invano. Ed è proprio questo l’aspetto più tragico del personaggio: Strauch non ha il distacco del saggio, soffre tremendamente perché vede il mondo e la sua vita per quello che sono davvero: «Come se dappertutto si aprissero continuamente delle porte ha detto. Uomini e parvenze di uomini, tutta la mia sconfitta mi viene addosso da ogni parte. Continuo a mandare via intrusi. Brandelli di ricordi del tempo in cui mi ero dedicato a tentativi che venivano annientati da altri tentativi simili, ma più forti. Ho visitato tante mostre. Ho sfogliato cataloghi nel ricordo. Amici mi hanno fatto visita. Si sono seduti accanto a me per oltre un’ora. Improvvisamente è apparso il mio studio di pittore. E insieme delle conversazioni tra fantasmi. Tutt’a un tratto gli abbigliamenti assurdi indossati soprattutto dalle donne che stavano in agguato sulle mie poltrone. Giovanotti distesi al buio con addosso pantaloni stretti. Vegliardi che con il loro denaro cercavano di comprarsi la considerazione, l’arte. Il mondo è semplice. Ho visto le mie finestre gremite del malessere di persone che non sanno dove vogliono andare né da dove sono venute. Tentativi di migliaia di ideali restavano impigliati tra i vetri delle mie finestre mentre il fumo delle sigarette saliva in alto. Per anni ho avuto orrore di quelle serate. Di quei mattini. Di quelle notti che tra le sere e i mattini si trascinavano come lussuria filosofica incapace di movimento. Come una carne che attraversi un’altra carne. Se interloquivano tutto si sgretolava come se fosse putrefatto e poi si sollevava come polvere. Non dovevo mai urtare contro nulla. I giovani venivano per inveire contro i vecchi. I vecchi per inveire contro i giovani. Tutto mi veniva addosso come un turbine e lasciava dietro di sé la disperazione».

Attorno al pittore Strauch e al giovane assistente senza nome si muove una moltitudine di personaggi che ben descrivono l’idea che Bernhard ha dell’umanità: la moglie dell’oste, che ha denunciato il marito omicida e lo tradisce con lo scuoiatore; il parroco e le sue continue, molto terrene, richieste di denaro; l’ingegnere che sovraintende alla realizzazione di una vicina diga, simbolo del “progresso” asservito al profitto e alla bruttezza; gli operai addetti alla costruzione costretti a lavorare in condizioni bestiali e nel tempo libero animati soltanto da lussuria e ubriachezza. «Tutti vivono una vita da maschera mortuaria. Tutti coloro che hanno veramente vissuto, un giorno se la sono tolta ma intanto la gente non vive, come già detto, la loro è soltanto una vita da maschera mortuaria. Oggi non esistono più vere persone, solo maschere mortuarie di vere persone. Tutto questo è talmente orribile perché si tratta di una mostruosa mutilazione operata dalla ragione che si trasmette da noi ai nostri simili nel cervello. Una vita apparente ormai incapace di essere una vita vera. Città morte da tempo, anche montagne morte da tempo, animali, volatili, persino l'acqua e le creature nell’acqua. Riflessi delle nostre maschere da morti. Un ballo in maschera di morti».

Il romanzo termina con la scomparsa del vecchio pittore, inghiottito dal gelo e dalla neve nella vallata di Weng, lasciando il lettore con un’amara domanda in sospeso: è lui il pazzo?

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