L’ultima notte di Raul Gardini: i gialli di Tangentopoli, la dinastia Ferruzzi

L’intervista di Affaritaliani.it al giornalista e scrittore Gianluca Barbera sul suo nuovo libro: "L'ultima notte di Raul Gardini, il giallo di Tangentopoli"

di Sara Perinetto
Libri & Editori
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L’ultima notte di Raul Gardini, un romanzo d’inchiesta su una figura che ha cambiato la storia d’Italia e la famiglia Ferruzzi

Raul Gardini è stato il personaggio chiave attorno a cui è ruotata la vicenda Enimont, e di conseguenza Mani pulite, la cui morte ha cambiato per sempre la storia italiana contemporanea, restando avvolta da tanti misteri irrisolti. Ne ha scritto con maestria Gianluca Barbera per Chiarelettere nel suo nuovo libro, L’ultima notte di Raul Gardini, un romanzo avvicente che ripercorre non solo il caso Gardini ma soprattutto la vicenda di una delle dinastie più importanti e affascinanti d’Italia: i Ferruzzi.
Affaritaliani.it l’ha intervistato per saperne di più.

A distanza di 30 anni, Gardini e la vicenda Enimont sono passati in secondo piano, soprattutto per le nuove generazioni. Barbera, come riassumerebbe il suo romanzo a chi ne sa poco o nulla?

Nel mio libro ripercorro un fatto reale grazie a un protagonista fittizio, Marco Rocca, giornalista d’inchiesta che segue la vicenda Enimont, innestata nel filone Mani pulite, il processo chiave di tutte le inchieste nate da Tangentopoli e che riguarda una ipotetica maxitangente da 150 miliardi che i Ferruzzi avrebbero pagato ai partiti politici. Rocca entra in scena la mattina del 23 luglio 1993 a Palazzo Belgioioso, dove è appena stato trovato il cadavere di Raul Gardini. Subito si rende conto che le indagini verranno archiviate per suicidio, ma non è convinto che sia questa la verità. 

Cosa non torna?

La sentenza che stabilisce che si è trattato di suicidio è legata a un elemento probatorio chiave ma ambiguo, un bigliettino trovato sul comodino con cui Gardini dice addio ai propri familiari. La prima perizia stabilisce che la scrittura era sì di Gardini ma di 11 mesi prima. La seconda data il bigliettino a pochi minuti prima della morte, il cui orario però non è mai stato accertato.


 

Sulle mani di Gardini, poi, il guanto di paraffina non ha rivelato polvere da sparo. I magistrati dell’epoca dissero che c’era stato un errore nel rilevamento tecnico: non sarebbe una novità, ci sono spesso errori nelle inchieste italiane che inquinano il quadro indiziario. Altro elemento dubbio è la pistola, all’inizio nelle mani di Raul e in un secondo momento sul tavolo: chi l’ha spostata? Per tutto il romanzo le due ipotesi, omicidio e suicidio, rimangono in equilibrio, ma alla fine non mi sottraggo e propongo, attraverso il parere del protagonista, una ricostruzione plausibile dei fatti. 

Non chiedo quale sia per non rovinare il finale ai lettori.

Diciamo che il protagonista scopre la verità, che però, comunque, rimane ambigua. Ma questo libro non è solo un giallo: la mia intenzione era raccontare la storia familiare dei Ferruzzi, che è importante e mai stata raccontata, tant’è che il titolo iniziale era Dinastia. Dopo la guerra, i Ferruzzi erano secondi solo agli Agnelli: avevano 55mila dipendenti per 21mila miliardi di fatturato. Se gli Agnelli sono la stella delle dinastie italiane contemporanee, i Ferruzzi sono una meteora, perché poi nel 1993 il gruppo viene messo in liquidazione e smembrato. Una cometa brillantissima ma finita nel nulla.

Gardini come ci entra?

Alla morte del fondatore Serafino Ferruzzi, nel 1979, anche quello un evento misterioso, il genero Raul Gardini viene messo a capo di questo gruppo, che porterà a essere leader anche internazionale. Se Ferruzzi amava la riservatezza, a Giardini piaceva stare sotto i riflettori, era carismatico, aveva una visione: creare il primo polo al mondo della chimica e trasformare l’economia mondiale, verso un modello in cui il principale motore energetico non fossero più petrolio e combustibili fossili. Ma era un progetto troppo costoso.

Gardini era all’apice del successo, qual è stato il suo sbaglio? 

È all’apice fino alla fine degli anni Ottanta ma poi decide di mettere gli occhi su Eni, cassaforte dei partiti politici, la più grande azienda statale italiana. I partiti piazzavano lì i propri uomini e attingevano soldi. Gardini dà così vita a Enimont, una joint venture tra le due società più grandi della chimica, Eni e Montedison, di cui il 40% è controllato da Gardini, un altro 40% da Eni e il restante 20% sono azioni sul mercato. Quindi nessuno comanda.

Questa operazione produce un guadagno per la Montedison di Gardini, su cui avrebbe dovuto pagare mille miliardi di lire di tasse allo stato. Gardini aveva acconsentito all’operazione in cambio di uno sconto su queste tasse: una promessa che De Mita fa ma non riesce a mantenere. Allora Gardini inizia a comprare le azioni sul marcato di Enimont per acquisirne il controllo, fino a dichiarare pubblicamente: “La chimica sono io”. Craxi se lo lega al dito e blocca tutto. Da lì nasce la maxitangente con cui Gardini voleva sbloccare la situazione, ma la famiglia, terrorizzata dalla politica, lo esautora dai suoi incarichi.

E così si arriva al giorno della sua morte.

Quella mattina Raul Gardini doveva recarsi in procura per parlare con Antonio Di Pietro. Per lui è stato un colpo durissimo perché la testimonianza di Gardini avrebbe cambiato la storia d’Italia, rivelando dove erano andati a finire quei 150 miliardi della maxitangente.


 

Se è davvero stato un suicidio, è spiegato dal fatto che Gardini in quel periodo era molto teso, aveva passato tutto il giorno precedente con i propri avvocati. L’idea di finire in prigione lo terrorizzava, anche perché a quel tempo i magistrati usavano il carcere preventivo per fare leva sui testimoni. Tre giorni prima era morto Gabriele Cagliari, suo concorrente, arrestato per tangenti e tenuto in uno stato psicologico di pressione per indurlo a parlare, e che invece l’ha portato al suicidio. Ci sono però elementi che fanno pensare a un omicidio: il processo Enimont si conclude con molte assoluzioni e poche condanne, lievi, grazie al decreto Biondi approvato proprio in quei giorni, ma se Gardini avesse parlato il processo non si sarebbe concluso in quel modo, Di Pietro l’ha sempre detto.

Quindi giustizia non è stata fatta?

No e non è stato chiarito praticamente nulla, primo fra tutti: non si sa dove siano finiti i due terzi della madre di tutte le tangenti. 

Quanto è impegnativo scrivere un romanzo di inchiesta su vicende ancora così intricate?

Il mio libro è composto da 60 capitoli, e ognuno ha richiesto un’indagine verticale. Ai tempi di Mani pulite ero uno studente universitario e i Ferruzzi erano famosissimi quindi mi sono appassionato subito. Poi negli anni ci sono state molte morti che hanno alimentato i misteri: Cagliari, Castellari, Gardini, il ministro Piga, Lorenzo Necci… Senza voler fare complottismo, si può dire che quella Enimont è una vicenda sinistra. Gardini alla fine si è trovato in mezzo a qualcosa di più grosso di lui: mi ha sempre affascinato e ho letto tutto il possibile per approfondire.

Quanto tempo ha impiegato per finirlo?

Per scriverlo, meno di un anno. Il grosso del lavoro è lo studio fatto prima, come il cartone preparatorio dei grandi affreschi. Raccogliere il materiale, dargli una forma, definire i personaggi, la storia… Per me è come girare un film, di cui, mentre scrivo, mi scorrono le scene davanti agli occhi. Una tecnica cinematografica che si vede bene nel libro, con salti temporali, molti dialoghi, dettagli… 

Dopo tanti anni di preparazione, questo libro è un punto di arrivo?

No, continuerò a occuparmi della vicenda e poi sarò consulente alla sceneggiatura e al soggetto della serie tv tratta da L’ultima notte di Raul Gardini. Il romanzo è stato letto prima che uscisse dalla società dei Manetti Bros: in genere ci vogliono settimane per avere un responso, mentre in questo caso è piaciuto subito, l’hanno letto in due o tre giorni e abbiamo già firmato un accordo per la trasposizione in serie tv.

Considerando gli argomenti del suo libro e il periodo in cui stiamo vivendo, è inevitabile chiederle un parere sulla candidatura di Berlusconi al Quirinale.

Penso che solo Berlusconi ci abbia creduto davvero. È nel suo diritto, ma ha avuto un appoggio incerto da parte dei suoi alleati, non avrebbe avuto i voti sufficienti e storicamente tutti i primi nomi sono fatti per essere bruciati. Ma non ci vedo nessuno scandalo, anche se non l’ho mai considerata possibile. 

E Draghi?

Uso una metafora calcistica: il presidente della Repubblica è l’equivalente di un portiere o di un difensore, ha una funzione di protezione, mentre il presidente del Consiglio è un centrocampista, un attaccante, un ruolo in cui Draghi sta bene: metterlo al Quirinale è come mettere Maradona in porta. Ma secondo me si è anche reso conto che la situazione è sempre più complessa e, data l’età, può anche andargli bene: magari non vedeva l’ora di uscire da questo ginepraio. 

Il suo candidato, invece?

Vedrei bene Marta Cartabia. Favorevole a una giustizia non solo di recupero ma anche riparatoria. Ma è cattolica e a molti non piace. O anche Paola Severino. 

Due donne, due ministre della Giustizia. Una sorta di risposta alla candidatura di Berlusconi che invece alla giustizia si dice essersi sempre sottratto?

Sembrerebbe ma no, non ci avevo pensato. Credo solo che al Quirinale debba andarci una persona di garanzia. Chiunque sarà.