Leonard Cohen, Marianne Ihlen e quelle strane storie sull’isola di Hydra

Leonard Cohen e Marianne Ihlen, a cinque anni dalla morte, un libro, un’intervista e uno spettacolo: Un amore a Hydra, intervista a Tamar Hodes

di Federico Faloppa
Libri & Editori
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C’è ancora qualcosa da dire, qualcosa da scoprire sul grande Leonard Cohen.

Ci pensa un romanzo-testimonianza, nato da un vecchio diario dello stesso Leonard e dai ricordi dell’autrice, Tamar Hodes, che lo conobbe quand’era bambina, e che intervistiamo in anteprima in Italia proprio a partire dal suo libro.

Un amore a Hydra. La storia d'amore di Leonard Cohen e Marianne Ihlen, uscito di recente per i tipi di Scritturapura (280 pagine, 20.00 euro), ripercorre la storia tra Leonard e Marianne e le felici quanto travagliate vicende della comunità internazionale di artisti e intellettuali creatasi sull’isola greca dove i due si conobbero negli anni Sessanta: fu proprio tra gli scrittori e i musicisti di quella piccola comunità bohémienne, e soprattutto accanto a Marianne, che Leonard trovò l’ispirazione e la forza creativa che lo porteranno a diventare l’artista che tutti conosciamo.

A cinque anni dalla scomparsa, giovedì 17 Torino Spiritualità ricorda il cantautore canadese con la serata Mercy and Longing. Un omaggio a Leonard Cohen: musiche e voci di Federico Sirianni, Veronica Perego, Martina Morello e Laura Zinno. A Giorgio Olmoti il compito di tenere il filo del racconto. 

Un amore a Hydra. La storia di Leonard Cohen e Marianne Ihlen, intervista a Tamar Hodes


 

Tamar Hodes è nata in Israele nel 1961 e, da bambina, ha vissuto con la famiglia all’interno della comunità internazionale di artisti formatasi a Hydra negli anni Sessanta, per poi di trasferirsi nel Regno Unito. Ha studiato a Cambridge e insegnato inglese nelle scuole, all’Università e nelle carceri, oltre a pubblicare romanzi e racconti.

“Per molti anni ho pensato di scrivere un libro sul periodo in cui, da piccola, ho vissuto a Hydra e sulle persone che conoscevamo. Ma è stato solo quando mio padre, prima di morire, mi ha dato il diario di Leonard e quando Marianne e Leonard sono morti nel 2016, a soli quattro mesi l’una dall’altro, che ho deciso di farlo.”

Affaritaliani.it l’ha intervistata in anteprima.

Ci sentiamo su Zoom. Lei vicino a Southampton, io a Reading. Sarebbe stato bello poter chiacchierare faccia a faccia, ma non è tempo: l’immaginazione deve piegarsi alla realtà delle cose, in questo aprile 2021. “Recupereremo quando ci vedremo in Italia, per la promozione del libro”, le propongo per rompere il ghiaccio. “Oh, sarebbe bello – sorride Tamar – adoro l’Italia, si dice che ai festival letterari italiani il pubblico sia molto caloroso”. “E non mancano i fan di Leonard Cohen: il tuo libro non passerà certo inosservato”, aggiungo io.

“Guarda – reagisce lei – a qualche fan il romanzo potrebbe non piacere. Sai, ho ricevuto moltissimi commenti positivi, e calorosi, in questi due anni, da quando il libro è uscito in Inghilterra. Ma qualcuno ha criticato il modo in cui ho raccontato Cohen. Perché l’ho raccontato non come un mito, come un intoccabile, ma come un essere umano: geniale, certo, ma anche misterioso, oscuro, con i suoi difetti, come tutti…”.

L’hai romanzato molto, Cohen?

No, al contrario: ho scritto solo cose vere, verificate: avrei rischiato di essere querelata, altrimenti. Ma l’uomo Cohen, per come emerge dalla relazione con Marianne e dalla sua vita sull’isola di Hydra, non coincide sempre con il personaggio Cohen, con il poeta e il cantautore venerato da tre generazioni di fan.

D’altronde tu c’eri, lo hai visto, conosciuto…

Ero molto piccola, avevo quattro anni quando i miei genitori si stabilirono sull’isola, a metà degli anni Sessanta. Mio padre era uno scrittore, mia madre una pittrice, e andarono a vivere su Hydra attirati dalla comunità di artisti che vi si era stabilita. Quindi sì, io c’ero, e c’erano i miei, testimoni diretti di quel clima, di quell’ambiente. E poi negli anni ho fatto ricerche sulle persone che vissero lì, a partire dallo stesso Cohen. Non volevo scrivere inesattezze su di loro, per una forma di rispetto non solo nei confronti dei miei ricordi, ma anche e soprattutto delle loro vite, delle loro persone, del loro vissuto collettivo.

Immagino tu sia tornata più volte a Hydra, negli anni, no?

In realtà no. Da quando i miei lasciarono l’isola non vi sono più tornata. Ho sentito persone del posto, ho chiacchierato con le persone dell’ambasciata greca di Londra, per scambiare con loro le mie impressioni sulla storia del loro paese negli anni Sessanta, sulla vite nelle isole prima che diventassero meta del turismo di massa. Ma no, non volevo che l’isola di oggi, degli ultimi vent’anni, così cambiata, si sovrapponesse nel mio sguardo all’isola che volevo raccontare io, quella di quel periodo. Avevo paura che rivedendo quei posti mi sarei confusa, mi sarei lasciata confondere da ciò che oggi c’è, ma che allora non esisteva ancora: strade, locali, perfino volti. Non tornare quindi alla fine è stato un vantaggio, per scrivere il libro: mi ha evitato di modernizzare quel racconto, e di scriverlo pensando agli abitanti e ai viaggiatori, così diversi da quelli di ieri.

Eppure le descrizioni di ambienti, strade, fiori sono così dettagliate: solo il frutto della tua memoria?

No, non direi. Anzi. Grazie ai diari di mio padre, ai suoi appunti, ho potuto riscostruire non solo le biografie, e le caratteristiche di certi posti, di certe abitudini, ma anche la flora, i luoghi, i profumi, i cibi. Volevo che i lettori potessero percepire proprio quell’isola lì, che attraverso i dettagli potessero immaginarvisi immersi. Una mia lettrice mi ha scritto, qualche mese fa, che leggendo il romanzo le veniva spesso appetito, per la descrizione accurata dei pasti. L’ho trovato un grande complimento: voleva dire che ero riuscita a fare esattamente quello che speravo: essere chiara nei dettagli, permettere al lettore di fidarsi di me, trasmettere un’esperienza quasi sensoriale.

E in effetti la sinestesia, la combinazione di più sensi (olfatto, gusto, vista) nelle tue descrizioni ritorna spesso… Ma parliamo dei temi del tuo libro.

Si può leggere in molti modi, il testo. Ci sono le storie d’amore, certo. La storia d’amore tra Leonard Cohen e Marianne, innanzitutto. Ma anche quella tra mia madre e mio padre, o tra gli altri protagonisti. E sono storie che non sempre finiscono bene, tutt’altro. Ai miei genitori quel periodo sull’isola non portò fortuna, ad esempio: vi si recarono con l’idea di mettere una pezza al loro matrimonio, già in crisi, e da quell’esperienza uscirono divisi, allontanandosi irrimediabilmente. Poi c’è la storia delle varie comunità che popolarono l’isola: quella degli scrittori, pittori, scultori, musicisti, creativi soprattutto stranieri (statunitensi, canadesi, inglesi, scandinavi, israeliani, ecc.) che raggiunsero Hydra con l’idea di trovare un loro spazio, il loro locus amoenus, e di fondare la loro comunità. Anzi, di essere liberi di esprimersi come volevano. Vi sono gli abitanti greci dell’isola, che con questi artisti interagirono tollerandoli, aiutandoli, lavorando per loro. Poi c’è la storia dell’isola nel contesto della Grecia di quegli anni lì: gli anni della dittatura dei colonnelli.

Un continuo leit motif del libro mi sembra, appunto, il rapporto tra gli artisti stranieri da un lato e i ‘locali’ dall’altro…

È un rapporto che mi ha affascinato molto, e che in qualche modo fa emergere anche il motivo più politico del libro: artisti sognatori di estrazione borghese da un lato, e osti, cameriere, portantini, artigiani dall’altro. Non è un caso che ho dedicato il libro proprio a questi ultimi. Sono le persone di cui si sa meno, quelle che interessano meno, che vivono – anche nella fiction narrativa – in funzione di quegli altri, nell’ombra, sullo sfondo. Eppure senza di loro, senza il loro lavoro materiale e pratico gli artisti non avrebbero potuto fare gli artisti. Senza la sua cameriera che si occupava di tutto, Cohen non si sarebbe potuto dedicare completamente alla sua poesia, alla sua musica. Esaltiamo – giustamente – il genio di quelli come Cohen, ma ci dimentichiamo che quel genio si è potuto esprimere perché aveva le condizioni, anche materiali, per poterlo fare. 


 

Visto che ne stiamo parlando, ti provoco con una mia sensazione: la sensazione che ci sia una specie di mentalità coloniale in quegli artisti. Magari non consapevole, ma certamente figlia della loro condizione, del loro tempo…

Forse è così. Gli artisti protagonisti del libro hanno una loro mentalità se non coloniale certamente ‘di classe’, anche se non la esprimono in modo esplicito, discriminante: usano l’isola, e i loro abitanti, funzionalmente a quello che vogliono fare: pensare, scrivere, dipingere, vivere la loro libertà. Sembra un paradosso ma non lo è: erano lì per sentirsi liberi, ma la loro libertà aveva bisogno del lavoro – spesso sottopagato – di altre persone per potersi realizzare. Erano, loro, tutti figli di professionisti, provenivano quasi sempre da famiglie benestanti, di classe medio alta. E per questo potevano aspirare ad avere un’esistenza meno sottoposta a regole, costrizioni, obblighi. E io non li biasimo affatto, per questo: anzi, hanno provato a non farsi ingabbiare dagli schemi sociali dei loro genitori, delle loro famiglie, che li avrebbero voluti professionisti, avvocati, industriali. Hanno provato a uscire dagli schemi, a farsi la loro vita, a cercare una loro libertà e felicità in un luogo altro. Ma poi avevano la loro servitù, case da affittare o acquistare su Hydra per un decimo di quanto avrebbero pagato in qualsiasi altro posto. Avevano chi lavorava per loro a poco prezzo, potevano dedicarsi all’arte perché non avevamo molte altre incombenze. Erano certamente di sinistra ma… a loro modo classisti: vedevano il mondo con il loro sguardo ‘di classe, con lo sguardo di chi, certe cose, le poteva dare per scontate. Anche – diremmo oggi – sul piano dei rapporti di ‘genere’. Le donne c’erano, eccome: ma erano madri, amanti, muse. Tutto, o quasi, ruotava intorno agli uomini. Come Marianne ruotava intorno a Cohen, dopo tutto…

Parliamo di Marianne, allora…

Marianne era bellissima, infelice – quando la conobbe Cohen – misteriosa, luminosa. Era la donna ‘funzionale’ per eccellenza: prima come madre, per suo marito Axel, poi come musa, per Leonard Cohen. Lei c’era, con la sua intelligenza, il suo intuito, la sua caparbietà: ma erano gli uomini a essere il centro creativo, a trarre energie da lei. E infatti Marianne non ha mai trovato una propria vera voce, come artista. Marianne era la proiezione della poesia e dell’ispirazione di Cohen: lui il genio, lei al suo fianco. Intendiamoci: Marianne scelse quella relazione, e per diversi anni fu felice di essere la compagna di Leonard Cohen, il quale anche grazie a lei poté scrivere quello che scrisse, trovare la propria cifra, il proprio linguaggio.

Eppure nel romanzo ci sono donne che trovano una loro voce…

Alcune di loro, sì. Ma sempre in un quadro sostanzialmente maschile. Se un uomo si ubriacava, andava in escandescenze, rompeva qualcosa, in quella comunità, nessuno diceva nulla; se lo faceva una donna, allora era un’isterica, non era una buona madre, era un’infelice. I rapporti di forza, anche all’interno di quella comunità sognante, apparentemente libera, creativa, erano tutto sommato gli stessi che si trovavano all’interno della società di quegli anni. E questo è un altro paradosso, viste le premesse su cui si sarebbe dovuta fondare quell’esperienza…


 

Premesse di libertà, appunto: di una vita alternativa possibile, di un sogno di felicità realizzabile, se non a livello collettivo almeno a livello individuale.

È questo il punto, forse. Artisti sì, ma molto indulgenti con se stessi. Coppie creative sì, ma tutto sommato borghesi in termini di relazioni tra i sessi. Genitori liberi sì, ma molto egoisti, molto disattenti nei confronti dei loro figli, lasciati spesso da soli, perché prima venivano le discussioni fino a notte fonda sull’arte e la poesia, le liti, i tradimenti, lo spazio per la propria creatività. Ecco, i figli: furono loro a soffrire molto, come successe al figlio di Marianne, che fu anche internato durante la sua giovinezza. E poi, sai, a chi ebbe successo – come Cohen – si giustificò tutto. Ma per chi, tra quegli artisti, fallì la sconfitta fu doppia: l’insuccesso artistico, appunto, e non di rado la sconfitta personale, familiare. Ci furono, eccome, anche i perdenti: e con loro la vita, e la gente intorno a loro, non furono molto indulgenti…

Sembra un giudizio molto tagliente, il tuo.

In realtà non lo è. Tentarono di farsi una vita loro, diversa: degli artisti che non facevano male a nessuno se non – forse – a loro stessi. Dicevamo del loro rapporto con gli abitanti dell’isola: funzionale, certo. Ma non per questo non nacquero amicizie profonde. E poi loro erano altrettanto funzionali alla vita degli isolani: non solo per i soldi con cui alimentavano l’economia di Hydra, ma anche per quella ventata di novità, stranezza, cosmopolitismo che portavano nella Grecia degli anni Sessanta: quella del regime dei colonnelli, non dimentichiamocelo. Ecco, loro non erano certo criminali: sognatori, con la testa per aria, immersi in loro stessi, ma non commisero mai nulla di illecito. Anzi, provarono una loro via, una loro via alternativa, a quel mondo diviso in blocchi, in quell’Occidente che stava riducendo a merce anche le idee, l’arte, la cultura e la contro-cultura. Il mondo, lì fuori, produceva giunte militari, consumismo acritico, società dello spettacolo. Loro al massimo producevano vite sregolate – le loro, quelle dei loro figli – e, quando però andava bene anche artisti geniali come Cohen. Che da quell’ambiente trasse molto, per sé e le sue canzoni. Io non li critico, infatti, né li biasimo. Ne racconto la storia per quello che fu, con sue contraddizioni ma anche coi suoi slanci ingenui, creativi, passionali. Non si preoccupavano di nulla, vivevano quasi senza piani, alla giornata: come i miei genitori, quando arrivarono a Hydra.

Eppure c’è qualcosa che va oltre le apparenze, mi sembra. Il libro è disseminato di presenze, segni simbolici. Simbolica la presenza sull’isola del monastero di San Giovanni, solo evocato ma forte, potente. Simboliche alcune ripetizioni, quasi formulaiche, certamente enigmatiche: penso ad alcuni dialoghi, ad alcune frasi dello stesso Cohen, ad alcune descrizioni. Simbolico un sincretismo tra religioni tradizionali (cristianesimo, ebraismo, ma anche quella sorta di panteismo che sembra regolare la vita della comunità di artisti). Simboliche le evocazioni sinestesiche, alcuni dettagli, la materia stessa (quella per dipingere, scolpire, o anche solo quella dei pasti), a cominciare dal titolo nella versione originale: The water and the wine, l’acqua che si trasforma in vino come nelle nozze di Cana, come nei trattati alchemici…

Sono felice che tu abbia colto questo livello simbolico. Come dicevo, il libro si può leggere in molti modi. Tematicamente, concentrandosi sulle storie d’amore, o su quel sogno comunitario. Ma stilisticamente, come pura descrizione, o come rappresentazione simbolica. Hai ragione a citare l’ebraismo. Cohen ne era certamente influenzato: era lui stesso enigmatico, contraddittorio, e molte sue strofe sembrano criptiche, metaforicamente molto dense. Sembrano rimandare sempre a qualcos’altro. Ecco, anche nelle mie pagine ho cercato di costruire dei rimandi. Perché quell’esperienza ha degli aspetti metaforici evidenti. Innanzitutto con la scrittura, l’atto dello scrivere: l’acqua che si trasforma in vino, l’espressione della creatività dell’autore resa possibile dalla materialità delle vite che racconta, ma anche dal tempo liberato dal lavoro materiale per potersi dedicare alla scrittura. E poi c’è certamente l’idea di una rinascita. San Giovanni e l’apocalisse ma quegli artisti che provano a far rivivere un sogno comunitario e creativo, a dispetto di tutto e tutti. La Grecia dei colonnelli ma anche il microcosmo di Hydra, che cerca di rigenerarsi sia grazie a chi proviene da fuori, sia per l’apertura, la tolleranza, la buona volontà di chi ci già ci viveva. La mescolanza di persone, biografie, ragioni, che alchemicamente si mescolano generando qualcosa di nuovo. Forse non fu la pietra filosofale, ma – come il vino – qualcosa di inebriante. Che cosa sarebbe la vita se ci fossero solo l’acqua, o il vino? Di entrambi abbiamo bisogno: materia e astrazione, bisogni e sogni, in costante reciproca generazione.

D’altronde, se anche l’esperimento artistico e sociale su Hydra dopo qualche anno fallì, quello stesso esperimento – e l’esperimento di Cohen e Marianne, della loro storia d’amore – ci ha lasciato in eredità una dimensione onirica e poetica, e alcune delle più belle canzoni di Cohen…

C’è sempre un’essenza, al fondo delle cose: la tolleranza, che su quell’isola fu reale. Un’aspirazione di felicità individuale, la bellezza di un’arte che non avesse altro scopo che quello di esserci. Inutile, e per questo vitale, necessaria. Con tutte le loro contraddizioni, quegli artisti e quelle artiste ci credettero veramente, in questa cosa. Con tutti i loro limiti, e grazie a qualche privilegio, fecero delle scelte: che poi queste si traducessero in insuccesso non era così importante. Ecco, forse è questo il messaggio che mi piacerebbe cogliessero i lettori del mio romanzo: il tentativo di una vita non dettata da calcolo, ma da un bisogno creativo. Senza necessariamente porsi come modello per nessuno: ma solo come alternativa per se stessi. Quanto oggi saprebbero vivere la propria vita senza far calcoli? E qui di nuovo ritorna la metafora, il simbolo, quello dell’isola come di una dimensione altra: imperfetta, certo, ma diversa, capace di liberare tempo ed energie. Ma in grado di farlo solo mescolando l’acqua e col vino: l’elemento creativo dionisiaco col lavoro materiale di tante persone, lasciate spesso nell’ombra. Il genio è un’astrazione, se non si riconosce il ruolo di chi, quel genio ha permesso di coltivarlo. Anche questo vorrei che si cogliesse: prima di essere i prodotti del nostro talento, siamo i prodotti di chi ci ha permesso di esprimerlo, quel talento. Come fu la cameriera di Cohen per Cohen. Come fu la stessa Marianne. Non c’è un messaggio di rivoluzione, nel romanzo: a quegli artisti la rivoluzione come risultato politico tutto sommato interessava poco. La loro esperienza da questo punto di vista non può essere considerata paradigmatica. Ma c’è un richiamo all’umiltà, e al rispetto di chi permise loro di farla, quell’esperienza. Persone che da loro, dal loro estro, spesso stralunato, trassero nuovi motivi per resistere, per non piegarsi alla cupezza del regime e alla durezza della loro vita materiale.

Ecco un altro livello di lettura: quello della reciprocità, che poi è alla base della stessa metafora di textus, dal ‘tessere’: la combinazione di elementi che si tengono insieme per produrre un contenuto narrativo…

Esattamente, proprio così. O, se vuoi, per dirla con Leonard Cohen, “c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce”.