Macello, l’urlo silente nel nuovo romanzo di Maurizio Fiorino
In Macello (edizioni e/o) l’autore calabrese con formazione artistica transoceanica, fotografo e giornalista di mestiere, descrive un sud arcaico e desolato
Intervista a Maurizio Fiorino per l'uscita del suo ultimo romanzo, Macello, con Edizioni e/o
Se si ha presente l'iconico dipinto di Edvard Munch, si può ben comprendere come il romanzo di Maurizio Fiorino si possa definire - con un chiaro ossimoro - un urlo quieto, con le smorfie dell'urlo che non emette frequenze. Compresso, compatto, cristallizzato. E per questo viepiù squassante per chi lo emette e per coloro che avranno la fortuna di recepirlo.
In Macello (edizioni e/o) l’autore calabrese, di Crotone ma con un formazione artistica transoceanica, fotografo e giornalista di mestiere, descrive un sud arcaico e desolato degli anni ’70; di chi pur ravvisando i tutti i limiti della terra di origine ne rimane fatalmente legato.
"Il mio rapporto con la Calabria è tipico, d’amore e odio. È banale dirlo, lo so, ma così è. Corrado Alvaro diceva che noi calabresi, anche quando andiamo via, “rimaniamo”. Rimangono i modi, i tempi, il modo di osservare lo spazio:la cosiddetta restanza di chi, in fondo, non riesce mai ad andarsene del tutto" ci spiega Fiorino, autore di questa storia brutale e piena di grazia, breve come la vita (e ce n’è di vita, dentro), di atti mancati, di vuoti, di silenzi. Così intensi da occupare un’intera esistenza.
Dove hai attinto per dare vita all’umanità affranta della tua storia?
Ai ragazzi che frequentavo quando vivevo in Calabria,a quelli che frequento quando ci torno. Alle loro fidanzate, a chi vive nell’entroterra calabrese, a me stesso, ai miei ricordi, alle fotografie di Diane Arbus e, infine, al saggio “Maledetto Sud” di Vito Teti.
La vicenda che racconti è in risposta anche al clima omofobico dei nostri tempi?
Penso di no. Voglio dire, credo di non averlo fatto nemmeno a livello inconscio. Mi fa arrabbiare quando nei commenti dei pestaggi contro i gay leggo: “queste cose accadono solo in Italia”. Ma dove vive, questa gente? Dove si informa, cosa legge? Ho vissuto negli Stati Uniti per quasi dieci anni e l’omofobia esiste anche lì. In alcune zone, e penso agli stati rurali, più che da noi. Ma a parte le classifiche – chi è o meno omofobico, dove si picchiano o meno i gay, dove è più difficile crescere se si è diversi – che non servono a nulla, ci sono paesi in cui essere omosessualevuol dire essere giustiziato. Ecco, sarebbe interessante capire come agire, cosa fare, per salvare questa gente, se no rischiamo, com’è successo finora, di non battere ciglio, o quasi, davanti a centinaia di migliaia di cadaveri nel Mediterraneo e di scendere in piazza, indignati, per la morte di George Floyd.
La parabola umana del protagonista è punteggiata dalle assenze…
Mio papà è stato macellaio per oltre cinquant’anni e io ho trascorso buona parte della mia infanzia e adolescenza nel retrobottega di una macelleria. A parte questo e qualche altro dettaglio, c’è poco di autobiografico nel romanzo. Forse sì, l’assenza ha fatto parte della mia infanzia e fa tutt’ora parte di quella calabresità – tornando alla prima domanda – silenziosa, ai limiti del mutismo. Quei vuoti non possono non suggerire che, al di là del confine, esiste una doppia esistenza.
Il padre macellaio è un uomo brutale che riesce a essere dolce solo con le bestie morte, ma esiste una non vita alimentata dagli attimi di empatia mancati. È così?
Suppongo di sì, ma io, per affrontare questo argomento, mi metto da parte e lascio parlare Nina Berberova che ha definito quegli attimi di non vita la no man’s land, ovvero quella terra di nessuno che scorre parallelamente alla nostra vita visibile, di cui nessuno sa nulla, che appartiene solo a noi. “Il giungo mormorante” è un piccolo romanzo che ho conosciuto a diciotto anni e chemi ha segnato così tanto che vorrei non averlo mai letto.
Far star male chi si dovrebbe voler bene, segna per la vita? Si riesce a perdonare davvero?
Il rancore è un veleno che ti rimane dentro a vita, perdonare è libertà.
Ha una via di scampo l’attraente anedonia che vena le azioni di Biagio?
Non ne ho idea. Quello che mi interessava era raccontare l’esistenza di Biagio senza pregiudizio. Ho rispettato le sue scelte, sempre, anche se io mi sarei mosso diversamente. Cosa che ho fattoa diciotto anni, scappando via dalla mia città. Biagio, in fondo, è un maledetto, uno che vuole bruciarsi, che non ha nessuna intenzione di salvarsi. Gli piace soffocare e in quella mancanza d’aria, lui, riesce a sopravvivere. Ho molto rispetto per quelli come lui.
Quale senso di inutilità deve provare chi non soccorre un piccione torturato?
Tanta. Quello è uno dei pezzi del libro che non sono più riuscito a rileggere, dopo averlo scritto. Mi ha fatto male pensarlo, scriverlo, e rileggerlo nelle varie stesure. In quella finale mi sono rifiutato, non ce l’ho fatta più.
Ha scelto la boxe – lo sport praticato dal protagonista a livello amatoriale e che poco o nulla ha di nobile – anche per il suo significato allegorico?
Certamente, ma la boxe è la disciplina nobile per eccellenza. Purtroppo, negli ultimi decenni, dacché era uno degli sport più puliti e ambiti del mondo, sta finendo nel dimenticatoio. Colpa anche delle scommesse e degli incontri truccati degli anni ’80 e di chi non la conosce abbastanza da giudicarla uno sport violento. Lo è, certo, ma la vita lo è. A livello metaforico, nulla è più simile all’esistenza di ognuno quanto lo è la boxe dove cadi e devi rialzarti, sei alle corde e devi reagire, e così via. Il ring è l’equivalentedel palcoscenico di un teatro che, a sua volta, porta in scena la rappresentazione stessa della vita.