Intervista di Affari al poeta Corsi: "Scrivere? Un mix tra scopi e immagini"
È in libreria il nuovo volume di poesie “La materia dei giorni” (Manni Editore) di Marco Corsi, autore under 40 tra i più promettenti in Italia
Poesia, in edicola "La materia dei giorni" di Marco Corsi
È in libreria in questi giorni il volume di poesie “La materia dei giorni” (Manni Editore) di Marco Corsi, autore under 40 tra i più promettenti della scena nazionale.
Corsi, che è nato in Toscana e vive a Milano dove lavora per una primaria casa editrice, ha curato alcune rassegne di poesia e pubblicato diversi contributi dedicati alla poesia italiana contemporanea.
La sua prima silloge, “Da un uomo a un altro uomo”, nel 2015 è stata inclusa nel Dodicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos) e nello stesso anno ha vinto il Premio Cetonaverde Poesia sezione giovani.
Nel 2017 ha inaugurato la collana “Lyra giovani” di Interlinea con “Pronomi personali” (Premio Maconi e selezione Premio Fogazzaro e Premio Ceppo). Lo intervistiamo sul suo ultimo lavoro e più in generale sulla sua idea di poesia.
In questo libro si descrivono memorie di vasti continenti di ghiaccio punteggiati da misteriosi animali, geografie segnate da “parole corrusche e petrose”, divinità lontane che simboleggiano l’“eterno ritorno dell’oggi”. Perché, cosa rappresenta tutto questo?
Vorrei partire dalle parole con cui John Wheeler riassumeva la teoria della relatività di Einstein: space-time tells matter how to move, matter tells space-time how to curve. Così penso alle parole nello spazio-tempo in cui si muovono: il ritmo del verso e il respiro del nostro stare nel mondo.
Non possiamo eludere certi meccanismi. La materia è prima di tutto verbale, ma deve sempre confrontarsi con le leggi della realtà, con la storia, con la tradizione. E in questa reciprocità, fra intenzione e rappresentazione, risiede forse il principio della scrittura: come la presenza di materia e di energia modifica la curvatura dello spazio, così all’interno del testo il peso della ricerca e della tradizione agiscono sull’invenzione.
Ma qualcosa sempre ci sfugge, lo intravediamo solo per baleni – in certi lampi di significato oscuro, indecidibile. Percorrere a ritroso la storia di ciò che siamo e di ciò che significhiamo ci permette di attraversare la materia per giungere forse all’agognata significazione, per superare la dimensione più intimamente soggettiva.
Ci sono infatti fenomeni che ci prescindono: la curvatura intrinseca della superficie terrestre ci permette di vedere rette parallele che all’infinito si incontrano, viaggi che tornano al punto d’origine. Compiere un viaggio vuol dire prendere coscienza di sé, ce lo insegnano i classici e le narrazioni di tutti i tempi.
Per questo ho cercato conforto in divinità lontane come Quetzalcoatl (il dio del vento, dell’Oriente, l’uroboro), perché il cammino dei versi potesse trovare un nuovo senso, per me e il lettore. Soprattutto per il lettore.
Nel poemetto “Per ogni vivente” il punto di partenza è la descrizione algida di un’emicrania con aura, i continenti di ghiaccio sono quelli antartici costellati di pinguini, e il pensiero vi si muove attraverso come il filo elettrico della visione. Chi legge può attraversare questa materia come un’installazione, dove pezzo a pezzo si configura un significato ulteriore.
C’è anche una visionarietà, capace di guidare il lettore in un viaggio sentimentale e di registrare i minimi eventi della vita di cui si sostanzia il vivere. Vuole spiegare meglio? Quanta esperienza personale c’è in queste pagine?
Essere capaci di visione vuol dire, per me, guardare al mondo in una prospettiva di tempo profondo. Trovare le immagini per rappresentare la realtà non vuol dire solo fissare una concretezza che è sotto gli occhi di tutti, ma anche invitare chi si mette in ascolto a penetrare quella realtà che vede e di cui vuole forse impadronirsi.
Per questo è importante accumulare narrazioni, sedimentare materia e significati. Soggette alla pressione della storia millenaria che ci attraversa certe intuizioni possono allargare nuovi orizzonti. E permettere all’io di fuoriuscire da se stesso, di condurlo all’incontro con l’altro. In questo libro, specie nella sezione centrale (“Vuelvo al Sur”), ho cercato di forzare quei limiti che più mi sembravano inficiare una percezione più piena e libera della realtà.
Ho cercato forse di ricreare, a modo mio, il “brodo primordiale” del Salar di Atacama che ho potuto vedere prima che questo mondo si fermasse, ricreando l’habitat adatto per un discorso in grado di esprimersi in potenza o per mezzo di simboli. Guardando dove la natura è davvero specchio di noi, del nostro passaggio nel mondo. Soprattutto a certe latitudini il mondo sembra ricominciare da capo, perché niente lì, in quei luoghi estremi, è più forte della natura. Per l’uomo c’è solo l’abisso.
In questo libro ci sono tuttavia anche sezioni più liriche, da canzoniere, caratterizzate da quello che mi piace definire un trobar clus: stile pienamente codificato, che ho provato a piegare in una dimensione prosastica, sempre sostenuta da un’idea pregnante di ritmo.
Penso soprattutto alla prima suite di testi, “Fissavo l’ombra sul muro”: qui per rappresentare il momento del distacco e della morte ho preso a prestito un’immagine – e un sintagma – di Dino Campana, ripetendolo in apertura di testi di diversa misura, come un idiotismo.
Ma vorrei citare ancora “Quetzalcoatl”, o meglio citarlo per la prima volta come testo: è in questo poemetto che si concentra il più alto tasso di autobiografia. Forse un bilancio, forse una necessità. In una dimensione in cui nulla ci appartiene definitivamente: ti chiedi spesso cosa del racconto / finirà per attestarti in quanto vita, / e non è ancora finita / l’indubbia trenodia dei lutti. / c’era anche un prete, lo so, / poi scomparve, di lui conservo / alcuni libri per sempre.
Da Omero a Octavio Paz sono molteplici gli echi letterari che risuonano all’interno di questo libro? Perché questi autori?
Di Omero c’è una citazione diretta fra le prose di “Le succulente” (si prese cura di me, mi nutrì e diceva che mi avrebbe reso immortale e immune dalla vecchiaia: ma non riuscì mai a convincere il mio animo, Odissea, VII, 256-8), sulle quali ho lavorato più volte, aggiustando e variando, finché non ho riletto alcuni brani dei “Sillabari” di Parise che sono stati illuminanti e hanno dato una direzione definitiva alla scrittura.
In “Quetzalcoatl” c’è il celebre motto oraziano caelum, non animum mutant qui trans mare currunt. I classici ci hanno definiti prima che noi stessi potessimo conoscerci – è impossibile eluderli.
Quello con Octavio Paz è un debito che ho contratto lavorando per un certo periodo sulla sua poesia e mi piace pensare che abbiamo percorso lo stesso cammino su direttrici speculari: lui partendo dal Messico ha trovato una nuova luce in India; io da occidente sono approdato nelle viscere più antiche del nuovo mondo, nel continente mesoamericano, in Patagonia.
Sono molto legato a due suoi componimenti diversi, fra gli altri, “Elegía interrumpida” e “Entre la piedra y la flor”. Perché questi autori adesso? Perché la memoria è imprevedibile e perché la scrittura degli altri ci nutre in continuazione. E a volte è bello esplicitare i propri debiti.
Chi sono i suoi punti di riferimento poetici più importanti? E tra i viventi chi e perché vuole citare?
Ho già provato più volte a pormi a questa domanda. Altrettante ho cercato di darmi una risposta quando sollecitato da qualcuno. Ai nomi che ho appena fatto vorrei aggiungere, venendo ai giorni nostri, Anne Carson: la lettura dei suoi “Short Talks” per me sta alla base della zona più metapoetica del libro, ovvero “Stretching”. Ci sono due personaggi: l’uomo e il poeta. L’uomo è il poeta. Quello che mi domando è quanto ancora, al giorno d’oggi il poeta sia l’uomo.
E per farlo spingo entrambi ancora sul terreno della morte, del distacco, diventano «Castore e Polluce in cerca del cinghiale calidonio». Se lei prende gli “Short Talks” di Anne Carson non trova nessuna parentela evidente con queste mie prose.
Ma io credo che l’eredità più grande che un poeta ci lascia, o ci affida con una specifica opera, risieda nell’intenzione della poesia. In ciò che lo ha mosso a mettere una parola dietro l’altra. Scoprire certi meccanismi, o forse intuirli, o addirittura immaginarli, aiuta chi scrive a non ridursi al ruolo di epigono. È come nel caso delle “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni che prendono spunto, a livello compositivo, dalla “Sinfonia degli addii” di Haydn.
Ma non andiamo oltre. Vorrei citare anche Alejandra Pizarnik, tra coloro che non ci sono più, e il “Bestiario sentimentale” della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, perché forse ho letto soprattutto prosa mentre scrivevo il libro.
Lo so, sto solo ritardando la risposta a una domanda precisa. I miei riferimenti più importanti, pensando al Novecento italiano, sono Sereni, Rosselli, Giudici e Raboni. Tra i viventi qui voglio citare Maurizio Cucchi che in “Sindrome del distacco e tregua” ha ridato vita al prosimetro; Antonella Anedda per quell’incipit che ancora mi risuona nella mente dal suo “Notti di pace occidentale”: «Se ho scritto è per pensiero»; e Franco Buffoni, come maestro di ritmo.
Perché scrivere oggi poesia? Cosa risponde a chi dice polemicamente che oggi sono più i poeti, dei lettori che acquistano libri di poesia? C’è qualcosa che non torna?
Scrivere poesia oggi significa continuare a dare energia alla lingua e profondità al linguaggio, come è stato in tutti i tempi. Non c’è altro compito e forse non ce n’è uno più alto.
Quanto alla seconda domanda, sulla sproporzione fra poeti e lettori/acquirenti di poesia, vorrei rispondere con un cruccio e con un aneddoto, spero non inventato: se ormai si è inverato l’adagio che il pubblico della poesia sono i poeti, oggi mi sembra sempre più evidente che i poeti non si leggano tra di loro; sul “valore del venduto”, mi pare fosse Caproni a lamentarsi di un certo suo libro di cui in venti anni ancora non era andata esaurita la prima edizione. E se si lamentava Caproni…