Nelle viscere della Terra, dove abita il dolore dell’uomo

Torna e trasloca e in Irpinia Carlos Solito, solido nelle sue radici instabili, menestrello del Meridione profondo

di Piero Ferrante
Libri & Editori
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Carlos Solito, Troppa notte intorno a me, Sperling & Kupfer 2021, 288 pagine. Illustrazioni Francalaura Rella e Maria Stefani

In principio fu “Sciamenescià”. Carlos Solito, signore monarca duca della luce di Puglia, padrone delle pianure sterminate del Salento. Fu El Paiso, pezzo di terra bruciato al confine meridionale di una più vasta terra bruciata, estate col sole che al posto dei raggi ha gli aghi e gli aghi precipitano gialli e ricamano sudori sulla fronte dei contadini dei camminanti degli sfaccendati fuori dai bar ché dentro, tanto, non funzionano i condizionatori.

Il principio era appena l’altro ieri, solo che di ‘sti tempi ogni anno ne vale tanti e il principio sembra siderale: anno 2016, questo dice il calendario quando Carlo Solito fa uscire per Elliot il suo primo romanzo. Archeologia delle emozioni, lette adesso quelle pagine. 

Uno due tre quattro cinque anni dopo, e molti viaggi dopo, molte foto dopo, mostre racconti poesie e perdite dopo, musica e vino nemmeno a dirlo, torna così, Carlos. Con un libro che mette soggezione solo a tenerlo in mano. Troppa notte intorno a me, per i tipi di Sperling&Kupfer .

Torna e trasloca e in Irpinia. Lui, Carlos Solito, solido nelle sue radici instabili, menestrello del Meridione profondo. Lui, come un Woody Guthrie di Mezzogiorno, ogni terra è la sua terra: gli appartengono le rapide dell’Ofanto che fa da confine a tre regioni, lo puoi trovare steso a dormire a un piede appena dalle dune di Maruggio, giù nella zona di Taranto; se stringi gli occhi capita lo possa sorprendere a girovagare per le campagne del foggiano dove si miete il grano, caracollante tra i fumi delle stoppie d’agosto o i fumi del vino messo a fermentare nella zona di Spinazzola; o a leggere il futuro di Matera nelle vene sbiadite delle strade che si arrampicano verso le chiese rupestri o per i Sassi. 

Torna e come un fenicottero delle saline di Trapani fuori rotta e stagione, trasmigra nell’Appennino campano, a parlare il linguaggio silenzioso e cesellato della notte. Già, perché questo è un libro che la notte la porta davvero tutta. Scritta. Dichiarata. Disegnata. Che la notte se la porta dalla copertina, la copertina che se la guardi troppo, nera e scura e tridimensionale, finisce che ti intrappola, ti cattura, un attimo e ti ci trovi dentro, avvolto, buio, senza accorgertene.

Dentro per magia nera di ogni singola illustrazione, una per ciascun capitolo, firmate dal duo Francalaura Rella e Maria Stefani. Dentro per incantesimo atavico, dentro ma dentro-dentro: per davvero, come Jumanji. E non sai più se sia la notte a essere venuta incontro ai tuoi passi o tu ad averla voluta incontrare. 

La notte è la notte di Dante Marcantonio, protagonista senza protagonismo. Uomo fragile dal cognome beffardo ch’evoca ben altri destini di potenza e ardore; trentacinquenne vedovo inconsolabile di tutto, la cui vita confina ovunque con la morte: morto è Michele, suo figlio, schiantato da un’auto; morto per necrosi il suo matrimonio, scartavetrato da un dolore incolmabile; morto scheletrito il suo progetto di vita, il lavoro, Milano, capelloni e barbone, l’editoria per ragazzi.

Dante che nel mezzo del cammino della sua non-più-vita, perso tutto, finisce per ritroso dove tutto è cominciato: dentro la sua stanzetta di bimbo e adolescente, nella casa dei genitori. Scatole cinesi fatte di legno di castagno e mattoni, nascosto ai più e visibile solo agli occhi ruvidi dei pazzi del paese (il fratello rancoroso di Cristo, l’erotomane mai domo, quello che regala le spine dei ricci di castagna che gli si infilano sotto pelle, il barista marxista) con i quali condivide le aurore fredde, le ore piccole quando accadono, silenziosi, i miracoli. 

Ma è sull’orlo di una ventara (è così che chiamano le voragini in Irpinia), sul baratro di quello che aveva deciso essere l’ultimo secondo di vita, che Dante, come ogni Dante che si rispetti, incontra il suo Virgilio. Lo sciamano. Lo speleologo che affonda a ogni esplorazione nella placenta di fango del mondo e che ogni volta nasce e torna a rinascere, sporco e sazio di esistere come un poppante. L’uomo solitario, ritirato in una baita circondata dalla neve, che lo inizia al vino di Castel del Monte, che celebra il dolore sciogliendo caciocavallo podolico e brinda alle perdite con fiaschette del miglior whisky anglosassone. 

Dante e Virgilio parlano la stessa lingua: che è poi la lingua di Carlos, una lingua che echeggia dalle profondità della malinconia, intima e sporcata del nero fuliginoso delle nuvole di tempesta. Insieme, nel fluire di ricordi, scrivono il grande spartito del dolore. Un dolore da cantare a squarciagola, senza mai rinnegarlo. Un dolore furibondo, bestiale, ancestrale: lo stesso di tutti gli uomini senza conforto, degli abbandonati, dei reietti dell’amore, dei dannati della terra e dei diavoli scappati da inferno e paradiso per venire a sbattere la testa da questa parte di Storia.

Ed è la venerazione di questo mastodontico dolore che li conduce al Caliendo, grotta dei monti Picentini, a discendere nei meandri del mondo, tra giungle di formazioni calcaree, stelle di cristalli, fiumi sotterranei, antri e cappelle, in compagnia di compare Silenzio e Messere Buio. Girone dopo girone, cerchio dopo cerchio, Dante e Virgilio, scrivono con i corpi un cantico di fatica fatto di condivisione e di liberazione. Ore e ore a percorrere i cunicoli, ore lunghe come nove mesi, gemelli di destino nel ventre intimo di una donna, la più grande che ci sia.

C’è tutto l’uomo, ma proprio ogni sfumatura di tutto, in questo nuovo libro di Carlos. C’è l’anatomia di un’anima spaventata afflitta dolorosa troppo morta per la vita e troppo viva per la morte. C’è il tunnel con tutta l’oscurità del tunnel e pure il lumicino al suo fondo. Raramente un uomo, scrivendo, ha saputo, in meno di 300 pagine, dare fondo alla geografia intricata che affolla la mappa di un cuore umano. Ma Carlos e i suoi personaggi, ora non più smargiassi di quelli di El Paso, non mandriani da far west levantino, ma piuttosto raffinati musicanti in cammino, hanno le parole e le bussole per farlo. E lo fanno. Li guidano le stelle comete, i miti antichi e i percorsi tracciati da vecchi pionieri. 

Quello che ne scaturisce è un libro che è un lungo manifesto del diritto alla sofferenza. Triste sì, ma triste non alla maniera di un brutto funerale in una chiesa di cemento, triste invece di quel fruscio di tristezza che fa un disco di Luigi Tenco quando gira sul giradischi.

A noi, non resta che seguirli, Carlos e i suoi animali solitari. Sapendo a monte che, da un cammino così, non è detto che si esca indenni.