Philippe Daverio, Il mio Napoleone: un gioiello editoriale scritto con ironia
Il titolo risulta alquanto banale, in compenso, però, lo scritto può essere considerato, sotto la dimensione tipografica ed editoriale, un piccolo gioiello
Philippe Daverio, Il mio Napolene. Indagini sull’uomo, la famiglia, l’Italia, Rizzoli. Recensione
Ironico e scanzonato: è il tono usato da Philippe Daverio (Mulhouse 1949 – Milano 2020) nella sua indagine, pubblicata postuma, sull’imperatore Napoleone I, il Grande (1769 – 1821), di cui ricorreva, nell’anno 2021, ormai definitivamente passato oltre, il secondo centenario della dipartita di questo Corso, la cui famiglia possedeva, incontrovertibilmente, origini italiane, toscane, per la precisione, il quale, durante l’arco della proporia esistenza, ha letteralmnete stravolto i consolidati equilibri europei che, fino al momento dell’apparizione del Generale, formatosi in Francia, presso la scuola militare di Brienne, connotavano la facies geopolitica della vecchia Europa.
La quale, nonostante l’impetuoso vento della rivoluzione francese, poteva ancora “riposare” sul vecchio ordine impressole dagli accadimenti occorsi lungo l’arco di tempo che si è snodato sin dalla caduta dell’ Impero Romano d’Occidente, avvenuta nel 476 d. C.
Il titolo della pubblicazione, sento di dichiararlo immediatamnete, risulta alquanto banale e, in modo particolare, vieto, scontato. In compenso, però, lo scritto può essere considerato, sotto la dimensione tipografica ed editoriale, come un piccolo gioiello che può, e deve, ottimamente figurare in una biblioteca di un certo spessore culturale che possa presentarsi come una indiscutibile testimonianza icastica: sia immediata che, ormai, sedimentata. Philippe Daverio, Il mio Napolene. Indagini sull’uomo, la famiglia, l’Italia, Milano, Rizzoli, 2021.
Il volume si dipana, a sua volta, lungo un crinale storico ed artistico che difficilmente potrà essere eguagliato da riscontri di altrettanta valorialità: sin dalla sovraccoperta vi si presenta un particolare di “Napoleone legge la sua lettera di abdicazione” di George Richmond si nota prepotente e dalla elegante raffinatezza che difficilmente sarà possibile individuare in altre simili studi apparsi, in quest’ultimo lasso temporale, sul mercato editoriale italiano e, fors’anche, europeo.
Il corredo fotografico che caratterizza compiutamente il corpus dell’opera risulta autenticamente di prim’ordine, non soltanto per i soggetti ritratti, bensì, anche, per la nitidezza della resa tipografica e l’inteligenza della collocazione nel testo e la scansione dimensionale loro nell’ambito dello studio che viene altrsì connotato dal vasto respiro antropologico che Daverio ha inteso inprimere alla propria indagine.
Una declinazione socio-culturale ed estetica quella del racconto di Daverio, i cui registri spaziano liberamnete dalle considerazioni sulle origini toscane della famiglia Buonaparte –in seguito francesizzata in Bonaparte- al pensiero sull’arte che esprimeva l’imperatore dei Francesi, alla mediterraneità del piccolo Corso. Che, nei confronti dell’Italia manifestava, un atteggiamento spesse volte di sprezzante superiorità verso gli abitanti della Penisola, che si concretizzava nelle sistematiche razzie delle opere d’arte che andavano ad arricchire palazzi e gallerie d’arte parigini e, più estesamente, dell’intera Francia: “Tutti i francesi rubano. No! Buonaparte” era il leit-motiv che correva sulla bocca di quegli italiani che, consapevoli, degli incalcolabili danni inflitti al patrimonio artistico dell’Italia e all’identità storica della sua popolazione, perpetrata con scientifica protervia da questo “piccolo” autocrate francese, sfogavano la propria inane rabbia con feroci battute che possedevano il sapore del fiele e la ingenua essenza della satira irriverente.
Dentro di sé, in maniera quasi subliminale, Philippe Daverio parteggia per Napoleone! “Napoleone non era u dittatore, interpretava – scrive Daverio -, era piuttosto una sorta di leader folle di una realtà che corrisponde al’Europa che cambia: furto? Boh…certo, le restituzioni, che avvennero due decenni dopo -riflette e conclude il saggista- furono necessarie” (pp. 170-171). Come si può constatare, illico et immediate, un colpo al cerchio ed uno alla botte. Un volere e disvolere che possiede un sapore stantìo ed alquanto pilatesco.
Costituisce, tutto ciò, il peccato originale dello studioso, la cui nascita francese, a Molhouse, credo abbia pesato in qualche maniera, sull’intera stesura del saggio la cui incidenza politica e culturale, nell’economia della letteratura napoleonica in Italia, avrà non poca eco sia nell’epoca attuale che negli anni a venire.
Credo, a questo punto, che ciò possa e debba essere ascritto al carattere della “metà” italiana dell’autore, che felicemente conviveva nella personalità stessa di Daverio il quale, nella sua esistenza, ha saputo coniugare entrambe le proprie esperienze di vita e di cultura con un armonico tatto e una serenatrice conoscenza degli uomini e delle loro arti ed azioni. Secondo chi scrive, esso costituisce l’autentico, il vero fil-rouge dell’indagine chiamata il mio Napoleone.
Il suo Napoleone, sì! Nulla quaestio! Ma, il nostro?