Will Smith inedito sul padre violento: l'avrei ucciso per vendicare mia madre
L'attore e rapper 53enne si racconta per la prima volta nel libro autobiografico. ESTRATTI in anteprima
Will Smith, nel libro autobiografico rivelazioni sul padre violento, l'incontro con Muhammad Alì, il suo rapporto col razzismo
Will Smith si racconta per la prima volta in Will, il libro autobiografico in uscita il 9 novembre, in Italia l'11 novembre con il titolo Me(Longanesi). Un memoir di 400 pagine, scritto con la collaborazione dell'autore e blogger Mark Manson. In Italia sarà edito da Longanesi, nella traduzione di Paolo Lucca e Giuseppe Maugeri. Nel volume anche un inserto fotografico con immagini inedite.
Smith nel libro affronta diversi temi, parla dei suoi vissuti, del padre violento, dell'incontro sul set con Muhammad Alì, del suo rapporto con il razzismo. L'attore statunitense racconta come si possa arrivare a padroneggiare davvero le proprie emozioni attraverso un viaggio di scoperta interiore, di quanto si può ottenere attraverso l'esercizio della pura forza di volontà, e di ciò che si rischia di lasciarsi per sempre alle spalle. Da bambino ansioso e apprensivo in una famiglia disfunzionale nei sobborghi di Philadelphia, secondogenito di un padre duro e autoritario, fino a diventare una star di Hollywood, due volte candidato all'Oscar.
L'ex Principe di Bel-Air che ha fatto sognare e ridere generazioni con le sue avventure, sviscera lo scontro epico tra amore, ambizioni, paure e successo. Il lavoro che occorre per realizzare le proprie ambizioni senza sacrificare sull'altare del successo la propria felicità o dei cari, di come bisogni ascoltare tutte le voci, anche quelle "che non vuoi ascoltare".
Sul padre violento: "Ho pensato di ucciderlo per vendicare mia madre. A 9 anni vidi che la prendeva a pugni sulla testa"
L'attore 53enne, padre di tre figli, racconta di aver pensato di uccidere il padre "per vendicare mia madre che era stata picchiata da lui con estrema violenza. Avrei potuto farla franca, ma mi sono fermato in tempo". Per la prima volta emerge questa verità sconcertante sul genitore Willard Carroll Smith, un ingegnere specializzato nella refrigerazione, morto di cancro nel 2016, e mamma Caroline. A pubblicare l'estratto la rivista People.
Dal libro
Quando avevo 9 anni ho visto mio padre prendere a pugni mia madre su un lato della testa. L’ha colpita così forte che lei è crollata a terra e io l’ho vista sputare sangue. Quel preciso momento ha definito chi sono più di qualunque altro momento nella mia vita. Tutto quello che ho fatto da allora, tutti i premi e i riconoscimenti che ho vinto erano il mio modo di scusarmi con mia madre per non aver agito quel giorno. Per aver la delusa in quel momento. Per non aver tenuto testa a mio padre. Per essere stato un vigliacco. Il personaggio capace di fare a polpette gli alieni che avete visto nei film, l’eroe del cinema sopra le righe è in gran parte un artificio creato per proteggermi e nascondere al mondo il codardo che è in me.
Una notte, mentre lo spingevo sulla sedia a rotelle dalla sua camera da letto al bagno, il male si è impossessato di me [...]. Da bambino mi ero ripromesso che quando sarei stato abbastanza grande e abbastanza forte, quando non sarei più stato un codardo, lo avrei ucciso. Così mi sono fermato in cima alle scale. Avrei potuto buttarlo giù e farla franca facilmente...Mentre decenni di dolore, rabbia e risentimento scorrevano e poi si allontanavano, ho scosso la testa e ho continuato a spingere mio padre verso il bagno.
Era un violento eppure non si perdeva mai un mio spettacolo, una mia partita o una recita. Pur essendo alcolizzato, si presentava sobrio ad ogni anteprima dei miei film, ascoltava ogni mio disco, visitava ogni studio di registrazione.
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L'incontro con Muhammad Ali
In un altro estratto, diffuso in anteprima da Longanesi, si legge anche del racconto che Will Smith fa nel suo libro, in merito all'esperienza sul set con Muhammad Alì, "ruolo che lo consacrò nell'empireo hollywoodiano" e che all'inizio voleva rifiutare non sentendosi all'altezza.
Dal libro
Sono pochi al mondo gli esseri umani che possono davvero dire di sapere chi sono, che cosa sono e che hanno le idee chiare su ciò che sono chiamati a fare in questo mondo: Gandhi, Madre Teresa, Martin Luther King, Nelson Mandela, e anche giovani a loro modo rivoluzionari come Malala Yousafzai e Greta Thunberg. Ognuno di loro ha accettato la propria missione divina ed è disposto a soffrire per ciò che è giusto e per fare del bene al prossimo. La loro determinazione ha qualcosa di esaltante: sono calmi, decisi e compassionevoli anche nel bel mezzo della battaglia, nella peggiore delle tempeste. Solo stare alla loro presenza ci ispira a perseguire obiettivi più elevati. Vogliamo imitarli, metterci al loro servizio, combattere al loro fianco. Incontrai il campione, sua moglie Lonnie e le sue figlie Laila e May May a Las Vegas.
Alì se ne stava seduto davanti a un piatto di zuppa di pollo con noodles. Anche se non avevo intenzione di impersonarlo, non riuscii a impedirmi di osservare i suoi capelli, la forma delle sue labbra intorno al cucchiaio, la mano sinistra aggrappata al tavolo mentre mangiava con la destra, la fluidità sorprendente dei suoi movimenti. Quando sollevò gli occhi e mi vide, si esibì nella sua celebre espressione corrucciata, mordicchiandosi buffamente il labbro inferiore con gli incisivi superiori.
"Chi ha fatto entrare questo babbeo?" urlò, balzando in piedi. La famiglia chiaramente conosceva bene quel numero. Ognuno si calò nel proprio ruolo. May May si piazzò davanti a suo padre. "Dai, papa'", disse. "Vedi di comportarti bene oggi." Ali finse di volerla spingere via. "Questo babbeo pensa di poter venire a casa mia. Lascia che lo affronti", disse, parlando proprio come Muhammad Alì. A quel punto intervenne Lonnie. Ora lei e May May cercavano entrambe di trattenere Alì. "Su, tesoro", gli disse Lonnie con tono affabile, "finisci la zuppa. Possiamo passare almeno un giorno in cui non attacchi briga con qualcuno?"
Per non restare tagliato fuori, decisi di stare al gioco. "Ascolta tua moglie, campione", dissi, "mangia la zuppa. Non ti conviene provarci con me." Alì finse di andare su tutte le furie. "Ecco! Questo è troppo! Levatevi di torno! Voglio sentire come parla quando gli avrò infilato un pugno in bocca!" Tutti quanti scoppiammo a ridere. Chissà quante altre volte la sua famiglia aveva messo in scena questo siparietto! Ma quella volta quello era il regalo che Alì aveva voluto fare a me: sapeva che ne avrei parlato per il resto della mia vita. Alì era fatto così. Provava sempre a inventarsi qualcosa che ti avrebbe fatto sorridere per sempre. Sapeva di essere Muhammad Alì; sapeva cosa questo significasse per gli altri; e non c'era nulla che non fosse disposto a fare per lasciare impresso nel tuo cuore un tenero ricordo.
L'anno di allenamento e i cinque mesi di riprese di Alì furono la prova mentale, fisica ed emotiva più estenuante di tutta la mia carriera, ma anche quella da cui uscii più trasformato. Avevo visto il mondo comportarsi in modo diverso con questo film. Il solo nome di Alì bastava ad aprirci ogni porta; non mi era mai capitato prima. Chiunque avvicinassimo ci voleva aiutare. La stima di cui Alì godeva era un ottimo lubrificante per gli ingranaggi della produzione e della logistica: trattative, permessi, location, casting… Tutti quanti volevano mostrarsi utili per il campione. Qualsiasi cosa ci servisse per raccontare bene la sua storia, la risposta era sempre sì.
Non per la sua fama o per i titoli vinti come pugile, e nemmeno per il suo successo o le ricchezze. Il favore con cui venivano accolti dipendeva dal profondo rispetto che la gente provava per una vita vissuta con integrità. Alì non aveva mai rinunciato alle proprie convinzioni e ai propri principi nonostante le gravi ingiustizie subite, i profondi pregiudizi di cui era stato vittima e i disastri finanziari a cui era andato incontro. Era il più grande pugile di tutti i tempi, eppure diceva sempre: La mia religione è l'amore.
(Segue)
Il razzismo
Un altro estratto pubblicato in anteprima da Ansa, per gentile concessione della casa editrice Longanesi, riguarda invece il razzismo vissuto da Smith nel corso della sua vita.
Dal libro
Mi sono sentito chiamare apertamente 'negro' cinque o sei volte in tutta la mia vita: due volte da altrettanti agenti di polizia, in un paio di occasioni da perfetti sconosciuti, in una circostanza da un 'amico' bianco, ma mai da qualcuno che pensavo fosse intelligente o forte. Una volta ho sentito alcuni dei bambini bianchi a scuola 'scherzare' su una giornata di 'caccia al negro', una 'festivita'' apparentemente ben nota nei loro quartieri.
Ai primi del Novecento, alcuni membri della comunita' bianca di Philly sceglievano un giorno specifico per aggredire qualsiasi nero vedessero aggirarsi nel vicinato. Settant'anni dopo, alcuni dei miei compagni di classe della scuola cattolica trovavano ancora divertente scherzarci sopra. Ma qualsiasi vera esperienza io abbia avuto con episodi di aperto razzismo si è verificata con persone che nella migliore delle ipotesi consideravo come nemici fragili. Gente che ai miei occhi appariva ottusa e rabbiosa, e che non mi sembrava per nulla difficile da vincere o schivare. Di conseguenza, questa forma di razzismo palese, benché pericolosa e onnipresente come minaccia esterna, non mi ha mai fatto sentire inferiore.
Sono cresciuto nella convinzione di essere intrinsecamente attrezzato per gestire qualsiasi problema potesse sorgere in vita mia, razzismo incluso. Una combinazione di duro lavoro, istruzione e fede in Dio avrebbe abbattuto qualsiasi ostacolo o nemico. L'unica variabile era il grado d'impegno che ho dedicato alla battaglia.
Più crescevo, pero, più diventavo consapevole di certe forme di pregiudizio silenziose, inespresse e più insidiose perché sempre in agguato. Mi cacciavo in guai più grossi se solo facevo le stesse cose che facevano i miei compagni di classe bianchi. Venivo interpellato con minor frequenza e sentivo che gli insegnanti mi prendevano meno sul serio.
Ho trascorso la maggior parte della mia infanzia a cavallo tra due culture: il mondo dei neri, a casa, nel quartiere, alla chiesa battista e al negozio di Papo; e il mondo bianco della scuola, della Chiesa cattolica e della cultura prevalente in America. Andavo in una chiesa frequentata esclusivamente da neri, vivevo in una strada abitata solo da neri e sono cresciuto giocando soprattutto con altri ragazzini neri.
Allo stesso tempo, però, ero uno dei soli tre bambini neri che andavano alla Nostra Signora di Lourdes, la scuola cattolica locale. […] Alla scuola cattolica, per quanto fossi intelligente e parlassi bene, rimanevo pur sempre il ragazzino nero. A Wynnefield, per quanto fossi aggiornato in fatto di musica o di moda, non ero mai nero abbastanza. Sono diventato uno dei primi artisti hip hop ritenuto sufficientemente "sicuro" per il pubblico bianco.
Ma il pubblico nero mi etichettava come rammollito perché non rappavo stronzate hardcore e gangsta. Una dinamica razziale, questa, destinata a darmi il tormento per tutta la vita. Ma proprio come a casa, dare spettacolo e fare ridere divennero la mia spada e il mio scudo. Ero il classico pagliaccio della classe, che raccontava barzellette, emetteva versi stupidi e non smetteva mai di rendersi ridicolo. E finché rimanevo il ragazzino spassoso, significava che non ero soltanto il ragazzino nero. Divertente è un concetto che esula dai pregiudizi razziali; la comicità disinnesca ogni negatività. E' impossibile essere arrabbiato, rancoroso o violento quando sei piegato in due dalle risate.
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