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di Redazione Mediatech
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Fondi pensione e casse di previdenza, Covip: nel 2023 le risorse ammontano a 338 miliardi di euro 

Fondi pensione e casse di previdenza: l'Italia a che punto è? Nella consueta relazione annuale presentata alla Camera, Francesca Balzani, presidente della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip), ha illustrato quello che è lo stato dei settori vigilati- le cui risorse alla fine del 2023 ammontano a circa 388 miliardi di euro,  oltre che tracciare le prospettive e il futuro del comparto. 

Francesca Balzani, presidente facente funzione della COVIP
 

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Offerta e consolidamento del settore 

Partiamo da offerta e consolidamento del settore. In Italia esistono 302 fondi pensione, di cui 33 di tipo negoziale, 40 aperti, 68 piani  individuali pensionistici (PIP) e 161 fondi pensione preesistenti. Nel corso del tempo il sistema dei fondi pensione ha registrato una riduzione delle forme pensionistiche preesistenti, con una diminuzione di ulteriori 30 forme nel 2023. Questo consolidamento ha permesso di aumentare la dimensione media delle forme pensionistiche, favorendo economie di scala e maggiori efficienze a vantaggio degli iscritti. L'adozione di standard organizzativi più elevati, come richiesto dalla Direttiva UE 2016/2341 (IORP II), ha contribuito a migliorare l'efficienza del sistema.

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Gli iscritti e loro caratteristiche socio-demografiche

Note positive anche per quanto riguarda il numero totale degli iscritti alla previdenza complementare: nel 2023 si è registrato un aumento del 3,7% rispetto all'anno precedente, arrivando a 9,6 milioni utenti. Una quota che rappresenta il 36,9% delle forza lavoro. Nello specifico, i fondi negoziali contano 3,9 milioni di iscritti (+5,4%), i fondi aperti 1,9 milioni (+5,9%), i PIP 3,9 milioni (+1,7%), mentre i fondi preesistenti: 656.000. Il gap di genere è evidente: gli uomini costituiscono il 61,7% degli iscritti. Mentre le iscrizioni dei giovani (fino a 34 anni) sono salite dal 17,6% nel 2019 al 19,3% nel 2023.

In base all’età gli iscritti sono prevalentemente concentrati nelle classi intermedie e più prossime al pensionamento (gap generazionale): il 47,8% degli iscritti ha un’età compresa tra 35 e 54 anni, il 32,9% ha almeno 55 anni. Pur attestandosi ancora su percentuali inferiori rispetto alle altre fasce, negli ultimi anni il peso della componente più giovane (fino a 34 anni) sul totale degli iscritti è comunque cresciuto, passando dal 17,6% del 2019 al 19,3% del 2023. Cresce infatti, tra le nuove adesioni, la quota di soggetti fiscalmente a carico, la cui iscrizione viene indirizzata prevalentemente a favore delle forme di mercato.

Ciò rispecchia decisioni familiari di aprire una posizione previdenziale per i propri figli in vista di una successiva alimentazione con versamenti autonomi una volta che essi entreranno nel mondo del lavoro. Il diverso coinvolgimento nel mercato del lavoro contribuisce a spiegare in larga parte le differenze nella partecipazione alla previdenza complementare in un’ottica di genere e per classi di età. Rispetto alle forze di lavoro la partecipazione alla previdenza complementare cresce all’aumentare dell’età: tra i 15 e i 34 anni si attesta al 27,4%, per salire al 32,8% nella fascia compresa tra 35 e 44 anni, al 36% nella classe 45-54 e infine al 45% tra 55 e 64 anni.

Rispetto a cinque anni prima, il tasso di partecipazione della classe più giovane cresce di 6 punti percentuali e quello delle altre fasce di 3,5-4 punti percentuali. Rispetto all'occupazione, il 37,6% dei lavoratori dipendenti aderisce a forme complementari contro il 23,5% dei lavoratori autonomi; la forbice si allarga considerando i soli iscritti per i quali risultano effettuati versamenti, molto meno presenti tra gli autonomi.

Quanto all’area geografica, il tasso di partecipazione supera la media nazionale nelle regioni settentrionali, soprattutto laddove l’offerta previdenziale è integrata da iniziative di tipo territoriale; valori più bassi e decisamente inferiori alla media si registrano, invece, in gran parte delle regioni meridionali.

Risorse, contributi e prestazioni

Venendo alle risorse: il report evidenzia come quelle accumulate dalle forme pensionistiche complementari ammontano a 224,4 miliardi di euro, con un aumento del 9,1% rispetto al 2022. Nello specifico, i fondi negoziali detengono il 30,2%, i fondi aperti il 14,5%, i PIP il 25,3% e i fondi preesistenti il 30%.  I contributi annuali raggiungono i 19,2 miliardi di euro (+5,2%),  in crescita in tutte le forme pensionistiche complementari:  nei fondi negoziali sono stati raccolti 6,5 miliardi di euro (+7,7%); nei fondi aperti 3,1 miliardi (+7,4%), nei PIP “nuovi” 5,1 miliardi di euro (+2,3%); nei fondi preesistenti sono confluiti 4,3 miliardi di euro (+3,8%)

Sulle posizioni dei lavoratori dipendenti sono confluiti 15,8 miliardi di euro di contributi, in crescita di 961 milioni rispetto all’anno precedente. Di questi, 7,8 miliardi di euro riguardano quote di TFR; i contributi a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro sono pari, rispettivamente, a 5 e 2,9 miliardi di euro. Per i lavoratori autonomi sono confluiti versamenti per 1,7 miliardi di euro, 29 milioni in più rispetto al 2022. Gli iscritti versanti nel 2023, escludendo dal computo i PIP “vecchi”, sono 6,7 milioni, il 72,4% del totale. La contribuzione media di tali iscritti è di 2.810 euro, con lievi differenze in base alla condizione occupazionale: la contribuzione pro capite è più alta per i lavoratori dipendenti (2.900 euro), che possono beneficiare anche dei flussi di TFR, rispetto ai lavoratori autonomi (2.720 euro).

I versamenti annuali sono in gran parte (32%) concentrati nella fascia tra i 1.000 e i 3.000 euro, ma un’ampia porzione di iscritti (15,8%) effettua versamenti di importo inferiore ai 200 euro. Tra questi ultimi ci sono gli iscritti ai fondi pensione negoziali con modalità contrattuale per i quali viene versato al fondo pensione il solo minimale contributo a carico del datore di lavoro. Nella fascia di versamenti tra 4.500 e 5.500 euro, che include il limite di deducibilità fiscale dei contributi, fissato in 5.164,57 euro, è presente l’11,1% degli iscritti versanti. Al netto degli afflussi di TFR, che non concorrono al raggiungimento della soglia di deducibilità, in tale fascia si collocano 596.000 iscritti; in gran parte adesioni individuali a forme di mercato da parte di lavoratori autonomi e, in misura minore, di lavoratori dipendenti. I contributi annuali versati dalle donne sono inferiori del 16% circa rispetto a quelli degli uomini (3.010 euro contro i 2.540 euro delle donne) e il divario tende ad allargarsi al crescere dell’età.

I giovani tra 25 e 34 anni hanno una contribuzione pro capite inferiore del 38% rispetto a quella delle fasce di età centrali (35-54 anni). Nelle regioni del Nord le contribuzioni medie sono più elevate, con punte che sfiorano i 3.500 euro, il doppio rispetto a molte regioni del Mezzogiorno. Gli iscritti non versanti, pari a circa 2,6 milioni, sono più frequentemente presenti nelle forme di mercato e tra i lavoratori autonomi. Una parte cospicua è anche costituita da lavoratori dipendenti iscritti a fondi pensione negoziali con modalità contrattuale, con particolare riguardo a settori, come quello edile, il cui bacino è caratterizzato da elevata discontinuità occupazionale.

Le uscite per la gestione previdenziale nel 2023 sono state di 11,6 miliardi di euro, con prestazioni pensionistiche erogate in capitale per 4,5 miliardi di euro e in rendita per 401 milioni di euro.

L’allocazione degli investimenti

Gli investimenti dei fondi pensione (escluse le riserve matematiche presso imprese di assicurazione e i fondi pensione interni a enti e società) sono prevalentemente allocati, per il 56% del totale, in obbligazioni governative (il 14,1% sono titoli del debito pubblico italiano) e altri titoli di debito. I titoli di capitale sono pari al 21,4% del totale mentre le quote di OICR al 15,8% del totale. I depositi si attestano al 5%; gli investimenti immobiliari, in forma diretta e indiretta, si attestano all’1,8% del totale. Nell’insieme, il valore degli investimenti dei fondi pensione nell’economia italiana (titoli di Stato, titoli emessi da soggetti residenti in Italia e immobili) è di 36,6 miliardi di euro, pari al 19,4% del totale a fronte del 20,8% del 2022 (35,5 miliardi di euro). Gli impieghi in titoli di imprese domestiche rimangono stabili rispetto all’anno precedente (2,4% delle attività).

Il totale degli investimenti è di 4,6 miliardi di euro, così ripartito: 2,8 miliardi in obbligazioni e 1,8 miliardi in azioni; gli investimenti domestici detenuti attraverso quote di OICVM si attestano a 1,7 miliardi di euro. Tali valori riflettono anche la peculiare struttura del tessuto industriale italiano e il livello complessivamente limitato della capitalizzazione del mercato finanziario nazionale, elemento strutturale che purtroppo persiste, anche nel confronto con altri Paesi europei. In questo contesto si registra una crescente attenzione da parte del settore sulle tematiche connesse all’investimento nel sistema Paese. Numerosi fondi stanno ampliando le proprie strategie di investimento a favore di titoli non quotati, di private equity e di private debt, spesso attraverso iniziative congiunte e appropriatamente strutturate. Resta infatti ancora ampio, nel complesso, lo spazio che il quadro normativo consente per questo tipo di investimenti. 

I rendimenti e i costi

Nel 2023 la dinamica positiva dei mercati finanziari si è riflessa sui rendimenti di tutte le tipologie di linee di investimento, recuperando le perdite subìte nell’anno precedente. I risultati migliori si sono osservati nelle linee d’investimento con una maggiore esposizione verso i titoli di capitale. I comparti azionari hanno registrato le performance migliori, con rendimenti nell’anno in media pari al 10,2% nei fondi negoziali, all’11,3% nei fondi aperti e all’11,5% nei PIP; nei comparti bilanciati i guadagni sono stati inferiori. Anche i comparti obbligazionari hanno registrato nell’anno rendimenti positivi: gli obbligazionari misti hanno ottenuto il 7,2% nei fondi negoziali e il 4,4% nei fondi aperti; risultati positivi, ma inferiori, si sono registrati in media anche nei comparti obbligazionari puri e in quelli garantiti.

Una corretta valutazione della redditività del risparmio previdenziale non può tuttavia limitarsi ai rendimenti di un solo anno, ma deve fare riferimento a orizzonti più lunghi e coerenti con i vincoli temporali che a esso si applicano in ragione degli obiettivi perseguiti. Su un periodo di osservazione decennale (da fine 2013 a fine 2023), i rendimenti medi annui composti delle linee a maggiore contenuto azionario si collocano, per tutte le tipologie di forme pensionistiche, tra il 4,2 e il 4,5%, superiori al rendimento medio delle linee obbligazionarie e anche al tasso di rivalutazione del TFR (pari al 2,4% nel decennio). Le linee bilanciate mostrano rendimenti medi che vanno dall’1,9% dei PIP di tipo unit linked al 2,7% dei fondi negoziali e al 2,9% dei fondi aperti. Alle differenze di rendimento tra le forme contribuiscono, oltre all’asset allocation adottata, i divari nei livelli di costo. Per i fondi pensione negoziali, su un orizzonte temporale di dieci anni, l’Indicatore Sintetico dei Costi (ISC) è pari allo 0,5%; per i fondi pensione aperti, esso è dell’1,35% e per i PIP del 2,17%. Per le forme negoziali, il livello più contenuto dei costi dipende anche dalla dimensione dei fondi per effetto delle economie di scala generate dalla ripartizione degli oneri amministrativi. Per le forme di mercato, invece, incide presumibilmente la remunerazione delle reti di vendita.

L’attività di vigilanza

Nel 2023 gli interventi di vigilanza realizzati, a seguito di controlli condotti trasversalmente ovvero effettuati su casi specifici, sono stati circa 400; la metà ha riguardato gli assetti ordinamentali e l’altra metà i profili di governance, finanziari e attuariali e di trasparenza. Può ritenersi ormai conclusa l’attività di analisi dei documenti sugli assetti ordinamentali dei fondi pensione negoziali e preesistenti, così come modificati in adeguamento delle disposizioni attuative della IORP II.

Per tali tipologie di fondi, sono proseguite le verifiche dei requisiti di onorabilità e professionalità degli organi di governo e delle cosiddette “funzioni fondamentali” (funzione di gestione del rischio, funzione di revisione interna, funzione attuariale). Le verifiche in materia di trasparenza, rivolte a tutte le tipologie di fondi, hanno riguardato la correttezza delle informazioni contenute nei documenti informativi e nell’area pubblica dei siti web, specie con riferimento alle modalità di rappresentazione dei rendimenti e dei costi. È stata inoltre avviata l’analisi sulle aree riservate dei siti web; in tale contesto sono stati verificati anche gli esemplari di comunicazione agli aderenti e beneficiari.

Ancora con riguardo alla trasparenza, è stato dato impulso alle verifiche riguardanti l’informativa, disciplinata a livello eurounitario, in materia di sostenibilità. Ai fondi pensione interessati sono state segnalate alcune situazioni che avrebbero potuto ingenerare confusione nei potenziali aderenti, al fine di apportare gli opportuni correttivi. La rilevazione campionaria sulle opzioni di investimento offerte dai fondi pensione e orientate ai fattori di sostenibilità ESG (Environment, Social, Governance) conferma quanto riscontrato in indagini precedenti: circa un quarto delle forme pensionistiche propone opzioni di investimento che promuovono fattori di sostenibilità, per un ammontare di risorse pari al 22% del complesso delle masse gestite dai fondi pensione; nessuna forma pensionistica si è collocata tra quelle che dichiarano obiettivi di sostenibilità.

I controlli sotto il profilo finanziario, oltre ad approfondimenti specifici su situazioni particolari meritevoli di interesse, hanno riguardato l’analisi dei processi e dei presìdi di controllo messi in atto dai fondi pensione al fine di garantire l’adeguata gestione dei rischi finanziari, nel più articolato quadro di riferimento delineato dalla Direttiva IORP II. È inoltre continuata l’attività di monitoraggio dei fondi pensione preesistenti esposti a rischi biometrici e quella svolta in riferimento alle operazioni di razionalizzazione, concentrazione e liquidazione delle forme pensionistiche complementari. Le operazioni di razionalizzazione hanno principalmente interessato, come negli anni precedenti, i fondi pensione preesistenti, in particolare quelli di riferimento di gruppi bancari e assicurativi. Nel corso del 2023 sono stati inoltre effettuati interventi di tipo ispettivo, che hanno riguardato nel complesso 29 forme pensionistiche.

Le casse di previdenza 

Dal 2011 la COVIP vigila anche sugli investimenti delle casse di previdenza, in forza dell’esperienza maturata nel contiguo settore dei fondi pensione, in un più articolato sistema di vigilanza che vede i Ministeri del Lavoro e dell’Economia titolari di una competenza generale sulle stesse; in tale contesto, la COVIP è chiamata a riferire ai suddetti Ministeri gli esiti dei controlli posti in essere sulla gestione delle relative risorse finanziarie. I dati e le informazioni acquisiti nell’ambito della propria attività consentono alla COVIP di disporre di un importante patrimonio informativo che agevola la conoscenza del settore. Quest’anno, grazie alla piena entrata a regime del nuovo sistema delle segnalazioni di vigilanza, per la prima volta la Relazione annuale della COVIP presenta le principali grandezze aggregate allineate temporalmente a quelle dei fondi pensione. Alla fine del 2023, le attività complessivamente detenute dalle casse di previdenza ammontano, a valori di mercato, a 114,3 miliardi di euro, contro i 103,8 miliardi dell’anno precedente; a determinare la variazione ha contribuito soprattutto l’andamento positivo dei mercati finanziari, recuperando le perdite registrate nel 2022.

Tenendo conto anche delle componenti obbligazionaria e azionaria sottostanti gli OICVM detenuti, la quota più rilevante delle attività è costituita da titoli di debito, pari a 43,1 miliardi di euro (corrispondenti al 37,8% del totale; in aumento di 1,7 punti percentuali rispetto all’anno precedente). La composizione delle attività detenute continua a caratterizzarsi per la cospicua presenza di investimenti immobiliari (cespiti di proprietà, fondi immobiliari e partecipazioni in società immobiliari controllate), che nel complesso si attestano a 18,8 miliardi di euro (16,5% del totale; in diminuzione di 1,3 punti percentuali rispetto al 2022). Gli investimenti in titoli di capitale sono pari a 21,7 miliardi di euro (corrispondenti al 18,9% del totale, in aumento di 1,5 punti percentuali rispetto al 2022).

Gli investimenti nell’economia italiana (titoli di Stato, titoli emessi da soggetti residenti in Italia e immobili) ammontano a 44 miliardi di euro, pari al 38,5% delle attività totali. La componente immobiliare rimane predominante (17 miliardi di euro, pari al 14,9% del totale dell’attivo); seguono i titoli di Stato (13,8 miliardi, pari al 12,1% dell’attivo), che registrano un incremento di oltre 3 punti percentuali rispetto al 2022. Gli investimenti in titoli emessi da imprese italiane ammontano a 8,4 miliardi di euro, il 7,3% delle attività totali contro il 6,5% dell’anno precedente; di questi, circa 800 milioni sono titoli di debito e 7,6 miliardi titoli di capitale (che comprendono 1,95 miliardi di quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia).

Le prospettive future 

La solidità dimostrata dal sistema della previdenza complementare negli anni non può distogliere l’attenzione dai fattori strutturali che, nel nostro Paese, renderebbero necessario un suo consistente ulteriore sviluppo ma che, al contempo, non lo agevolano. Un’adeguata strutturazione del sistema previdenziale su più pilastri appare sempre più necessaria per mitigare i rischi specifici che interessano il sistema pensionistico di base e per aumentare la probabilità di conseguire prestazioni previdenziali nel complesso più elevate. La sfida dell’inclusione previdenziale è di cruciale importanza. Donne, giovani, lavoratrici e lavoratori delle aree meridionali continuano a essere meno presenti nel sistema della previdenza complementare; anche perché più fragili nelle loro condizioni di occupazione.

A fronte di tali fattori strutturali, non favorevoli alle prospettive di sviluppo della previdenza complementare, vi sono tuttavia possibili interventi di manutenzione evolutiva che possono accrescere in un orizzonte più ravvicinato l’attrattività e l’efficienza del sistema. Un insieme di interventi dovrebbe aiutare la capacità contributiva delle persone meno forti, attraverso una rimodulazione dei benefici fiscali. Tali benefici, oggi sostanzialmente espressi in termini di deducibilità dei contributi - fino a 5.164,57 euro - potrebbero trasformarsi in una contribuzione di ingresso nelle prime fasi lavorative.

Andrebbe inoltre consentito di riportare ad anni successivi spazi di deducibilità di cui non si è goduto nell’anno di riferimento. Ciò incentiverebbe la partecipazione di quanti hanno redditi più variabili, come i lavoratori autonomi. Vanno inoltre viste con favore misure volte a rafforzare il processo di accumulazione delle risorse. Il passaggio del sistema di tassazione dei rendimenti conseguiti dai fondi pensione dal risultato maturato al risultato realizzato, quale previsto dalla delega per la riforma fiscale, in corso di attuazione, andrebbe nella giusta direzione. Il disegno della linea di default per il conferimento del TFR da parte dei lavoratori silenti dovrebbe virare dalla linea garantita ad una linea life-cycle, offrendo così maggiori opportunità in termini di redditività e di prestazioni pensionistiche.

Le linee garantite hanno infatti una componente azionaria quasi nulla e su un orizzonte temporale di dieci anni hanno registrato rendimenti inferiori alla rivalutazione del TFR, pari al 2,4% medio annuo, e quindi ben al di sotto del rendimento medio annuo delle linee a maggior contenuto azionario (che si colloca tra il 4-4,5%). Si tratta di misure che riportano all’attenzione del decisore politico il ruolo della conoscenza, dell’informazione e dell’educazione finanziaria e previdenziale per favorire decisioni di risparmio previdenziali più adeguate. La disciplina nazionale esprime oggi un favor per la corresponsione della prestazione complementare nella forma di rendita vitalizia, volta a coprire il rischio di longevità, ma incerta nella sua durata.

L’evidenza empirica mostra, tuttavia, che le persone manifestano una preferenza a ricevere le somme accumulate interamente in capitale (analogamente a quanto avviene per il TFR alla cessazione del rapporto di lavoro). È ragionevole ritenere che l’obbligo oggi vigente di percepire nella forma di rendita vitalizia almeno il 50% della posizione individuale accumulata sia un fattore che non incentiva l’accumulazione di risparmio nella previdenza complementare.

In tale quadro, sarebbe quindi utile disporre di ulteriori opzioni di pay-out, che amplino le possibilità di scelta nella fase di erogazione. Potrebbero essere prese in considerazione, ad esempio, anche prestazioni previdenziali che eroghino le somme accumulate ripartendole su un periodo pluriennale, contribuendo almeno in parte a mitigare i rischi connessi alla durata della vita successivamente al pensionamento, diversamente dall’erogazione del capitale in un’unica soluzione.