Da Ferragni allo spot della Calabria: messi all'angolo i creativi pubblicitari
Dopo il Balocco gate, arriva una nuova mazzata: in pole per la promozione turistica della Regione Calabria ci sarebbe non un grande creativo, ma Ryanair
La disfatta della pubblicità: le agenzie che hanno tolto soldi alle idee, battute in creatività perfino dalle linee aeree
Conosco personalmente Davide Arduini: è un bravo manager, un ottimo imprenditore ed una persona squisita. Probabilmente non si aspettava di ricoprire l'incarico più prestigioso della sua carriera, presidente di UNA, l'associazione delle agenzie di pubblicità, e di dover gestire i momenti più bui di questo mestiere: una ripresa post Covid lenta, seguita da una serie di scivoloni del settore. Il più recente è stato il super convegno di fine '23 sull'importanza degli influencer, organizzato insieme ad Upa, l'associazione degli investitori: è stato terremotato dal pandoro Gate della regina delle influencer, Chiara Ferragni. Poco più di un mese, ed ecco una nuova mazzata. Il clamoroso risultato della gara per "l’affidamento dei servizi di marketing digitale per la promozione turistica della Regione Calabria, in Italia e all'estero": 47 milioni di euro, ovviamente appetiti delle più importanti sigle creative e media.
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Le indiscrezioni indicano come vincitore dei 4 lotti dal bando pubblico non una struttura pubblicitaria, bensì la compagnia aerea RyanAir. E pare che buoni risultati, in termini di score, li abbia raggiunti anche l'altra compagnia aerea che aveva partecipato al pitch, EasyJet. Una disfatta totale per l'intero settore pubblicitario. Ovviamente Arduini ha ricordato in un comunicato che "un obiettivo di promozione turistica richiede una strategia di comunicazione e una pianificazione media ottimizzata rispetto ai target di riferimento, pane quotidiano delle agenzie di comunicazione". Parole di buonsenso, che anche l'uomo della strada comprende: nessuna linea aerea può fare pubblicità meglio di una agenzia di comunicazione.
E invece. In realtà, questo è il risultato, doloroso e prevedibile, di un fenomeno lungo più di due decenni: la rivoluzione che i finanzieri hanno lanciato alla componente più importante della comunicazione: i creativi. Già nel 2006, Sir Martin Sorrell, patron della WPP, il più grande gruppo di agenzie del mondo incluse Ogilvy, Y&R, JWT ed i centri media collegati, aveva dichiarato la sua guerra personale: "perché devo pagare così tanto quei break ballers dei creativi?", si era chiesto nel corso di una convention all'Hotel Martinez di Cannes, durante il Festival mondiale del settore.
Comprensibile che i finanzieri, più preoccupati ai collocamenti in borsa che alle idee pubblicitarie, vogliano che in agenzia contino più i reparti amministrativi che i produttori di idee. Per fare esempi italiani nei decenni finali dello scorso secolo, i leader d'agenzia erano professionisti come Emanuele Pirella, Gavino Sanna, Marco Mignani, Armando Testa, Giancarlo Livraghi. Erano firme creative, solide e sicure, con il loro nome sulla porta dell'agenzia. Garantivano talento ai clienti e seguito mediatico: non c'era un cliente o un giornalista che non volesse conoscere la loro opinione. E, piccolo dettaglio, fatturavano miliardi di lire. Chi ha lavorato con loro, in quegli anni, sa che fare il creativo con loro significava avere talento, idee, cultura, carattere.
Poi, lo shopping delle finanziarie, come la WPP di Sorrell, ha portato a forti concentrazioni, separazione del business media da quello creativo e una nuova onda: a copy e art era richiesto molto allineamento, poco talento, appiattimento alla cultura del digitale, del data driven, del social, degli algoritmi, della scrittura basata sulle key Word di SEO e SEM, delle profilazioni automatiche dei consumatori. Son cresciute così un paio di generazioni di creativi abituati a considerarsi solo una minuscola, insignificante parte del processo, non il motore della comunicazione. Schiacciati nel lavoro di team, senza uno stile dettato da un direttore creativo di valore, non autori orgogliosi ma uno dei tanti nomi nelle lunghe liste di credits in cui non si comprende più chi ha talento e chi è solo uno "schiavo del codice".
Questo processo di "diminutio" della personalità dei creativi (e di conseguenza anche dei loro stipendi), ha prodotto un offuscamento del valore delle idee. Al punto che si narra di agenzie che, a fronte delle commissioni, al cliente potevano anche offrire in omaggio la creatività. A questo aggiungete che i centri media spesso fornivano direttamente gli story board o i digital AD attraverso loro piccoli reparti creativi; che le società di consulenza come Accenture hanno cominciato ad offrire creatività e pensiero strategico interno; che tutto un mondo di consulenti aziendali, cost controller, produttori di spot, società di ricerca, ha cominciato ad offrire servigi fuori dalle proprie competenze, tra cui i mitologici servizi legati all'Intelligenza Artificiale, capovolgendo un mondo di sapere verticale e tecnico in un suk pubblicitario, in cui tutti vendono tutto. Un dumping catastrofico di reputazione, credibilità, e soprattutto remunerazioni, per tutti gli attori di questo mercato in cui perde la categoria, nonostante produca un valore di PIL di qualche decina di miliardi di euro solo in Italia.
Nel frattempo, molte aziende, davanti a questo carnevalesco approccio generalista, hanno cominciato a costruirsi solidi reparti digitali interni: dalle dotcom companies (Google, Amazon &co, i broadcaster, le società sportive, quelle di betting e videogiochi) si è arrivati alle linee aeree, che non solo gestiscono i loro investimenti in rete. Ma sono così efficienti e ben strutturate che adesso possono perfino mettersi in competizione con le agenzie di pubblicità, rese comunque più pesanti da una visione tutto sommato novecentesca del business delle commissioni, mentre il mercato digitale va ormai verso il Programmatic e l'acquisto disintermediato. E così si arriva al Patatrac della scorsa settimana: le agenzie hanno voluto sminuire il valore della creatività (e dei creativi), e ora si ritrovano a combattere con modalità totalmente diverse (comanda la tecnologia, non la strategia) da offrire a costi irrisori. E altri casi si annunciano all'orizzonte, in cui le agenzie verranno giudicate solo come fabbriche di Lead, non più di idee originali.
Certo, Sorrell ha vinto la sua battaglia per pagare meno i creativi. Ma lui ha perso la sua WPP, nel frattempo. Ed i CEO di agenzia adesso non sanno più cosa fare per ritornare ad esibire quella che una volta era l'unicità delle agenzie di comunicazione: l'intelligenza strategica e creativa. Quella che veniva così ben pagata, perché non era riproducibile industrialmente e faceva la differenza per le marche. Nel frattempo, la qualità media del prodotto creativo italiano è clamorosamente calata, salvo rare eccezioni, di cui parleremo in una prossima occasione.
Le nuove generazioni di direttori creativi quaranta cinquantenni non riescono ad incidere né localmente né internazionalmente; le campagne sono basate sull'uso smodato, e ruffiano nei confronti dei clienti, di testimonial e Influencer hanno dimostrato i loro limiti; l'adesione acritica all'onda culturale woke ha portato a grande attenzione ai temi DIE (Diversit;y, inclusion and Equality) in spot e azioni digital e tv che però generano scarsi risultati commerciali e di equity delle marche (anche di questo abbiamo già parlato su questo giornale).
In questo delirio masochista di ADV Tech, la comunicazione basata sulla tecnologia e non sulla strategia, non si privilegiano più le idee, ma solo la profilazione, la scrittura SEO, gli algoritmi e l'AI con cui i clienti pensano di poter creare da soli le proprie campagne. Il risultato è che i pubblicitari stanno cadendo in una crisi identitaria e, soprattutto, di profitti. Paradossalmente chi continua a mietere successi, e a fare soldi, sono i creativi puri: molti innovatori hanno lasciato da tempo le agenzie, i più visionari, come ai bei tempi, le gestiscono dal vertice, senza farsi imporre legacci finanziari o visioni anti professionali. Sono questi creativi la vera innovazione di questo mestiere: hanno rotto con l'ADV Tech e non cercano le digital PR, i convegni sulla inclusività e le polemiche di Sanremo. Semplicemente si concentrano sulle Idee, sul lavoro ben fatto, sul successo dei clienti, sulla visione internazionale. Ne parliamo la prossima volta.