Hopkins: "Cancel culture come nazismo". Ma Repubblica "insabbia" la denuncia

L'attore premio Oscar in un'intervista a Repubblica fa a pezzi il politically correct. Ma il quotidiano offusca la sua denuncia titolando sul niente

Di Giuseppe Vatinno
MediaTech

Hopkins a Repubblica fa a pezzi la "cancel culture". Ma il quotidiano degli Elkann offusca la denuncia titolando sul niente

Nella melassa omogenea che invade e soffoca l’intero mondo quasi fosse un blob velenoso, c’è qualcuno che ogni ha tanto ha il coraggio di rompere il muro di omertà e dire come stanno veramente le cose. "Viviamo nella cultura del nuovo fascismo, della cancel culture. Non c'è più libertà di parola", così si espresso un attore famosissimo e premio Oscar per “Il silenzio degli innocenti”, Anthony Hopkins.

La cosiddetta cultura progressista, infatti, sta diventando sempre più aggressiva e cerca in ogni modo di zittire qualsiasi voce fuori dal coro e con i principali media che si allineano subito per appecoronarsi al Pensiero Unico Dominante (PUD). L’attore britannico non le manda a dire: "Oggi se dici qualcosa, sei cancellato. Le persone vivono nella paura. E questo richiama alla Germania nazista, ricorda l'Unione Sovietica e Stalin, il maccartismo americano. La dittatura del pensiero 'giusto' è terribile".

Si tratta in fondo dello stesso meccanismo del fenomeno del mobbing in senso strettamente biologico. Quando c’è un soggetto isolato il gruppo si coalizza contro di lui facendosi forza con il numero, diciamo pure una strategia da vigliacchi ma che funziona benissimo. L’ 83-enne attore è implacabile nel mostrare il deprecabile fenomeno: "Viviamo in una società, in un mondo, virtuosi. La virtù di essere nel giusto, di una ideologia, di aver messo al potere un certo governo. Le persone che si attengono a questo standard dicono: 'Ti sbagli, io sono nel giusto'. Ebbene, quella virtù è l'assassino. Basta guardare agli orrori degli ultimi cento anni. Milioni di russi massacrati da Hitler, Mao Zedong e la strada verso la grande utopia, un bagno di sangue".

Paradossalmente l’intervista è stata concessa a Repubblica, da sempre impegnata sul politically correct ed anche questa volta non si è smentita. Infatti ha titolato, come riporta anche il Giornale: "È bellissimo far ridere la gente di questa cosa ridicola chiamata vita" che c’entra poco o niente con il succo dell’intervista stessa che era appunto contro il politically correct. Una bella azione di rimozione, da Ministero della verità del Grande Fratello, per non perdere la prestigiosa intervista.

Ma ormai Repubblica la zappa sui piedi se l’è data da sola e chi legge l’articolo non può che rimanere colpito dal coraggio dell’attore. E sì perché chi ha il coraggio di uscire dal coro paga dazio. Lo si vede in ogni campo dai Cambiamenti climatici, al luddismo dilagante, alla retorica dei No Tutto e da ultimo al patriarcato e al femminismo estremale.

Chi scrive, ad esempio, ha ricevuto una convocazione dal Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti per essere stato critico sulle note affermazioni parossistiche sulla responsabilità di ogni maschio su stupri e delitti di genere, ribadendo nei miei articoli che la responsabilità è solo personale ed individuale e qualsiasi tentativo di generalizzare è “razzismo di genere”. Eppure, in questi giorni, la nostra società sta mostrando proprio quello che l’attore britannico ha denunciato.

Ci sono giornalisti che in nome del politically correct neppure si azzardano a fare domande scomode, come è accaduto qualche domenica sera fa in televisione. Questo non è giornalismo. Ci sono continui tentativi di intimidire chi la pensa diversamente e sono molti che non esprimono più le proprie idee, si auto - censurano per paura di essere aggrediti. Come dice Hopkins siamo in un regime del “politicamente corretto” non troppo dissimile da vere e proprie dittature.

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