Lorenzo Marini da PubliStar a PopArtStar: “I creativi non servono più"

Il creativo rappresenterà l’Italia alla Biennale d’Arte di Venezia ’24 nel padiglione nazionale Grenada a Palazzo Albrizzi Capello

di Pasquale Diaferia
MediaTech

Lorenzo Marini da PubliStar a PopArtStar: “I creativi non servono più, bastano i soldatini"

La notizia, lo ammetto, mi ha colto di sorpresa. Dal 20 Aprile le opere di Marini rappresenteranno l’italia alla Biennale Arte con la mostra Nessun uomo è un’isola, curata da Daniele Radini Tedeschi: la consacrazione da artista per un Art Director che da 40 anni caratterizza il panorama della comunicazione. Sono della stessa generazione di Lorenzo, abbiamo vissuto su rotte parallele e sincroniche attraversando le stesse tappe: gli anni d’Oro della Milano da Bere, le sfide imprenditoriali, i grandi cambiamenti del digitale. Poi lui si è riservato il successo anche come artista, con esposizioni negli Stati Uniti, Emirati Arabi e Far East.

Quale occasione migliore per capire come convivono nella stessa testa due personaggi così diversi: l’artista che verrà celebrato nella più importante manifestazione espositiva mondiale e il Founder della Lorenzo Marini Group.


 

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“Sai, ho letto una frase  molto bella che dice: ‘sono schizofrenico? Si, una volta ero schizofrenico.  Ma adesso stiamo tutti bene.’ 

Metà di me è arte e usa la fantasia, senza briefing. L’alta metà lavora su commissione. Le due metà stanno bene.”

E me lo dice mentre mi porta sul terrazzo del suo ufficio milanese: di fronte c’è la sede storica della McCann, in cui ha fatto uno dei primi colloqui della sua carriera. Anche qui, i percorsi si intrecciano. Si esordiva in agenzie che stavano in pieno centro: la mia JWT in Durini. McCann Erickson in Meravigli, TBWA nel palazzo di Radetzky in Cusani, Leo in Fatebenefratelli, Ogilvy in Santa Maria Beltrade, CPV in Corso Europa, con vista sulle guglie del Duomo. Si diventava creativi in luoghi che avevano una nobiltà, una storia, un destino.  E si doveva essere all’altezza di tanta bellezza.  

“Per questo ho deciso di restare in centro, mentre tutte le agenzie son finite in periferia. Oggi fai colloqui con ragazzi che non conoscono la Storia, non sanno chi era Pirella. In questo c’è già la soluzione alla domanda ‘c’è qualche creativo italiano alla Biennale?’ La risposta è no perché, da quando la pubblicità ha perso i suoi padri fondatori (Ogilvy, Bernbach, Leo Burnett), la finanza si è comprata tutto: a fine anno non si parla più di idee ma di bilanci. Non serviamo più, noi creativi: bastano i soldatini della ripetizione e della profilazione.  Non servono più i direttori creativi. Il loro potere era vero. Oggi quel ruolo non ha ragione di essere. Basta non disturbare il manovratore finanziario.”

A Venezia le opere esposte, i buchi neri dove finiscono le parole non dette, racconteranno della tua poetica artistica, mai separata dalla visione da comunicatore, La lettera A (l’inizio), la lettera Z (la fine), la lettera O (l’infinito) e la lettera X (la tecnologia) attraversano l’orizzonte degli eventi. Ma allora, perché questa seconda, duplice vita da Artista?

“Non credo sia una seconda vita.

Quando ero iscritto ad architettura facevo anche l’accademia. Quando ho cominciato il lavoro di Art Director, scrivevo anche. Sono stato licenziato per aver scritto un libro. Il mondo della letteratura è sottile, il rapporto è one to one. L’Arte Visiva, invece, è tra te e tanti. E questo già mi affascinava da ragazzo. Man mano che il lavoro del comunicatore è diventato digitale, sentivo il bisogno di sporcarmi le mani. Vasari diceva: la cosa più vicina all’idea è lo schizzo. E allora mi è piaciuta questa cosa che più il mondo va verso il digital e più torno verso la trementina, l’acrilico, la carta, la colla.

Mettere assieme discipline diverse è il mestiere del comunicatore. Così nell’arte ho portato quello in cui credo: il mixed media. Pensa che contaminazione è parola che aveva accezione negativa. Adesso è positiva, perché bisogna ‘impollinare' i vecchi pensieri per averne di nuovi. Leo Castelli sosteneva: ‘non dico mai cosa fare agli artisti. Mi raccomando solo che facciano una cosa nuova.’ Ecco, ho cominciato, come artista, a rifare in modalità diverse le cose che altri avevano già fatto. Le lettere, gli elementi di tipografia, li ridisegno perché sono componenti fondamentali. E diventano buchi neri perché sono rimandi a costellazioni in cui io connetto le stelle. Un’energia sottile che diventa deviazione, fiato non emesso che diventa vibrazione visiva.”

Un magazine di Los Angeles ti ha definito una “Pop Art Star”. Mi domando, quanto coraggio c’è voluto per correre il rischio di aprire una strada nuova, quando potevi tranquillamente continuare ad essere una PubliStar, forse uno degli ultimi a poter vantare Premi internazionali, fama personale, anche un bel po’ di invidia di colleghi rancorosi?

“In California essere una star è importante, c’è Hollywood. L’arte contemporanea è fenomeno americano, quindi il mio mercato non è mai stato l’Italia. Per questo sono andato a Seul, a Pechino, a Dubai, a esporre il mio lavoro sulla TypeArt: loro lo fanno da migliaia di anni. La loro approvazione mi ha aiutato così ad avere successo negli Stati Uniti. Per gli americani è importante essere già un brand. Solo se lo diventi, ti comprano. E’ il contrario dell’Europa, dove se ti comprano, allora diventi famoso.

Sul coraggio, onestamente, è dalla fine dell’Impero Romano che si parla di crisi. Gli unici tre momenti che hanno avuto il coraggio come tratto dominante sono stati il Rinascimento, il Risorgimento e il Boom economico. Ormai non ci sono più imprenditori coraggiosi, figurati se possono esserci creativi coraggiosi. Quando Armani e Prada avranno venduto, non ci sarà più nulla di italiano che abbia rilevanza mondiale. Il mio coraggio è solo metterci la faccia e abbandonare la mia confort zone.

Gli imprenditori creativi coraggiosi ci sono stati anche nel nostro mondo, e io e te li abbiamo conosciuti. Come ti dicevo prima, Pirella ha combattuto l’opinione dominante e la religione di Stato, ed è stato celebrato da Pasolini. Oppure Armando Testa.” Si alza, fa due passi, prende un quadro appoggiato a terra. E' un dito blu su fondo bianco:

“Ecco mi piacerebbe che tu faccia sapere a tutti che Armando mi piaceva molto: era ossessionato dalla sintesi. Quello era coraggio. Dillo a tutti che in ufficio io ho un suo quadro. Di a tutti che Armando mi piaceva molto. E che oggi, con tutti questi impiegati della profilatura del consumatore e della predittività algoritmica, nessuno ha più il coraggio sintetico di questi artisti della pubblicità. Il coraggio delle Idee.”

Per tutta la chiacchierata, il telefono ha continuato a squillare: giornalisti, avvocati, clienti, account, 

C’è la “crisi delle patatine” da gestire, forse non ho scelto il giorno migliore per parlare del mestiere di creativo. Mentre Lorenzo mi accompagna all’uscita, mi scuso: “Ti ho disturbato in un giorno convulso.”

Si ferma e si lascia andare ad un sorriso: 

“Guarda, Pasquale, c’è posto per tutte le stelle, in cielo.

Io vivo per essere felice. 

Purtroppo là fuori vedo tanta gente poco felice. Tutto qui.”

Scendo le scale del palazzo nobiliare. Nella zona pedonale davanti alla sede della vecchia McCann, la gente sciama: molti schivano una ragazza che cammina imprudente con gli occhi allo smart phone. Poi la giovane si ferma e getta uno sguardo agli sconti nella vetrina dei collant. Dura un secondo: rimette la testa sui social e si infila veloce nel metrò. 

E mi trovo a pensare : “Hai ragione, Lorenzo: c’è in giro gente poco felice. E creativi poco coraggiosi.”

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