Pubblicità in crisi: alfieri del buonismo incoerenti coi valori rappresentati

"Se segui la cultura woke, finisci fallito", ​​​​​​​i marchi si fanno male affidandosi a personaggi poco specchiati

di Pasquale Diaferia
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Chiara Ferragni e Oreo
MediaTech

Pubblicità, i finti campioni del #metoo che fanno male alle aziende

Gli scandali dei finti campioni del #metoo e della beneficenza affondano l’industria della pubblicità. La pubblicità, oltre che l’anima del commercio, dovrebbe essere anche il posto delle idee. Almeno così insegnavano i grandi creativi del passato: prima ci vuole una soluzione originale, poi puoi anche affidarla ad una celebrità che, a pagamento, aiuta a diffondere con più rapidità i valori di marca.

Poi è arrivato il pourpose marketing e molti pubblicitari hanno pensato che non servivano più idee, ma bastava una buona causa: così compagnie petrolifere e produttori di detersivi sono diventati alfieri dell’ecologia, chi schiavizzava i rider del delivery si è fatto protagonista di raccolte fondi per i senza tetto, qualunque influencer ha voluto partecipare ad azioni Charity per nobilitare il suo ruolo di “ambasciatore delle marche”.

Nonostante questo, già da qualche anno gli esperti, sopratutto all’estero, segnalano il pericolo di obiettivi di Purpose marketing troppo lontani dal Dna delle marche (un surgelato fatica a proporsi come campione di tutela dell’ambiente) e il rischio che affidare la Brand Equity ai testimonial equivalga a consegnarsi mani e piedi alle vicende umane di personaggi che spesso non sono specchiatissimi.

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A dire il vero, avevamo assistito proprio qui in italia a compagnie telefoniche che mollavano precipitosamente piloti di moto GP, pagati profumatamente per esaltare la velocità della loro fibra, perché indagati per evasione fiscale.

Eppure, siamo arrivati a fatti recenti davvero eclatanti: il recente Pandoro Gate ha dimostrato che può succedere che testimonial e azienda pensino di usare la beneficenza per spingere le vendite. Senza fare le donazioni promesse.

Lo scandalo Ferragni ha talmente preoccupato il mondo delle agenzie che uno dei più noti creativi italiani, Francesco Taddeucci, ha rilasciato una intervista a la Repubblica, lo scorso 22 dicembre, cercando di minimizzare la vicenda: indicando nella Ferragni un esempio di valore che avrebbe potuto occuparsi di politica con un seguito maggiore dell’attuale premier.

L’operazione di contenimento si è rivelata generosa e molto ripresa da molte altre testate, ma intempestiva: dopo qualche giorno, quella che era “solo” una sentenza dell’AgCom, si è trasformata in apertura delle indagini di molte procure italiane. E non abbiamo più sentito la voce dell’ultimo presidente delle giurie dell’Art Director Club Italiano, né di altri famosi pubblicitari, a difesa della altrettanto famosa influencer.

Evidentemente la pubblicità è caduta in imbarazzo. Anche perché nel frattempo si sono palesati altri due casi molto interessanti: il primo è  l’assoluzione di Selvaggia Lucarelli, che era stata denunciata per aver segnalato le curiose pratiche di Doppia Difesa. L’associazione dell’avvocato Giulia Buongiorno e della diva televisiva Michelle Hunziker, si sarebbe dovuta occupare della tutela delle donne vittime di violenza ma, come sosteneva la Lucarelli, in realtà serviva solo a dare visibilità pubblica alle sue due fondatrici.

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Proprio quest’ultima, negli anni precedenti, grazie alla sua immagine di donna forte e liberata, e di alfiere del #metoo, aveva sottoscritto molti contratti pubblicitari per prodotti vicini al mondo femminile. Inutile dire che adesso c’è del nervosismo negli uffici legali di aziende che hanno scelto la regina della tutela femminile. Alcune di queste compagnie ancora hanno la finta eroina delle donne nei loro spot.

Stesso problema in una famosa multinazionale dell’hamburger: per due anni ha ascoltato la sua agenzia pubblicitaria e ha affidato i suoi spot a Ghali, cantante pop campione di integrazione e diritti umani. In questi giorni è stato protagonista delle vicende sanremesi che hanno portato a prese di posizione in contrasto dell’AD della Rai e dell’ambasciatore israeliano in Italia. In realtà la nota multinazionale della ristorazione aveva già scaricato da un annetto il cantante influencer dei diritti civili: qualcuno sosteneva che i suoi milioni di follower, ed una canzone dedicata all’hamburger che portava il nome del cantante, non avevano garantito le vendite sperate.

Ma, proprio l’altro ieri, si sono scoperti molti scheletri nell’armadio dell’attivista: una serie di tweet del passato, che avevano la particolarità di essere sessisti, omofobici e intrisi di maschilismo tossico.

Anche in questo caso si può sospettare che il contratto sia terminato non solo per ragioni puramente commerciali. Ma perché gli alfieri della cultura woke spesso non sono coerenti con i valori che vorrebbero imporre.

Ormai, nei moderni uffici Marketing delle grandi aziende come nei contemporanei reparti creativi delle agenzie pubblicitarie, si sta diffondendo la convinzione che a seguire questa onda di Purpose marketing, per di più con personaggi non proprio specchiati, ci si possa fare molto male.

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D’altronde negli Usa, dove di casi simili se ne sono visti parecchi in questi anni, si sta diffondendo uno slogan molto preciso: “If you get woke, you go broke”. Che tradotto significa: “Se segui la cultura woke, finisci fallito”. Meglio abbandonare questo filone e tornare a idee belle e originali. Per maggiori informazioni sui rischi, chiedere al Cavalier Balocco.