Pubblicità italiana mediocre, Pirella jr: "Tanti impiegati, nessuna PubliStar"
L'intervista a Duccio Pirella, figlio del grande creativo Emanuele, sulla qualità della pubblicità italiana al giorno d'oggi tra Instagram e influencer
Pubblicità, parla Pirella jr: "In Italia tanta mediocrità"
Il figlio del grande creativo, che ha reso famosa e stimata la pubblicità italiana, per la prima volta si lascia andare ad un commento su quello che produce oggi l'Industria nazionale: "Tiro al Ribasso e Dittatura dell'Instagrammabile".
Emanuele Pirella è considerato universalmente il più grande copywriter italiano non solo per le cose che ha scritto ("O così o Pomì", "Non avrai altro Jeans all'infuori di me" per Jesus, "Repubblica sveglia l'Italia" per quello che allora era il più diffuso quotidiano nazionale, "Uoma" per il settimanale Amica e decine di altri famosi claim, entrati nel linguaggio della gente), ma anche per il successo come imprenditore della comunicazione (la sua Pirella Goetche, creò uno stile e divenne un caso di business, dopo la cessione all'inglese Lowe, Marshall & Spinks).
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E' stato anche un vero intellettuale prestato alla comunicazione: celebri le sue vignette con Pericoli ("Tutti da Fulvia sabato sera") che accompagnarono con ironia la crescita del paese; la sua opinione era sempre richiesta dalle maggiori testate; perfino il grande Pasolini si occupò, sulla terza pagina del corriere, dei suoi più conosciuti pezzi di pubblicità.
Il mio personale ricordo di Emanuele erano le telefonate che mi ha fatto per complimentarsi con il “me giovane copywriter”: lui lo faceva abitualmente con i creativi di altre agenzie autori di campagne che aveva apprezzato. Perché, è utile ricordarlo, un tempo, i creativi alzavano la cornetta e si complimentavano con i colleghi che avevano fatto cose buone. Il tempo dell'Odio e delle Menzogne non era ancora arrivato: allora prevaleva la Buona Educazione e il Rispetto.
Abbiamo incontrato suo figlio Duccio, che ha vissuto gli anni più produttivi ed internazionali della carriera del padre, prima della cessione dell'agenzia, all'inizio del nuovo millennio. Ovviamente si è confrontato quel periodo di grandi campagne e di firme di qualità, con questi tempi di digitale, social, data driven, impiegati e fake news.
Per cominciare, vorrei ricordarti quello che tuo papà mi disse alla fine degli anni '80: "Come nei '60/'70 i migliori talenti si riversavano nel giornalismo, nel cinema e nella tv, così negli '80 la pubblicità ha magneticamente attratto le migliori penne e gli artisti più interessanti di quella generazione." Visto lo stato dell'arte dell'attuale comunicazione commerciale, vuol dire che siamo in presenza di una Crisi del Talento? Davvero in questo ambiente non ci sono più i "migliori"?
"Riflessione condivisibile, la tua. Come me, ricordi bene che la pubblicità aveva potere attrattivo sulle persone di talento. In quegli anni, come nel decennio successivo, in agenzia c’erano giovani intellettuali che potevano tranquillamente andare a lavorare nel cinema, nella musica o nei migliori giornali, e invece smaniavano per scrivere i claim pubblicitari che la gente ripeteva per strada, in ufficio, in fabbrica. Anche gli art si esprimevano attraverso poster e spot tv: erano artisti a tutto tondo. I creativi frequentavano pittori e scultori, facevano vignette, molti suonavano in rock band o scrivevano canzoni. Qualcuno di questi copywriter, come Federico Cavalli. Per hobby si inventò 'La solitudine' per la Pausini.
D’adda e Vigorelli erano ghost writer per programmi tv acidi come L'araba fenice di Antonio Ricci. E poi scrissero per un'edizione indimenticabile di Sanremo, quella irrispettosa di Piero Chiambretti. C'era chi collaborava con il Derby, chi come Walter Fontata divenne autore televisivo con la Gialappa's, altri copy divennero conduttori radio e tv di successo. Era un ambiente stimolante, intelligente, per niente impiegatizio: i Direttori Creativi andavano a cena con Guttuso e a pranzo con Umberto Eco. Quindi in agenzia non potevano dirti 'fammi una campagna che segua i dati predittivi dei social network o della SEO', come avviene oggi. La richiesta intellettuale, e qualitativa, era un'asticella posta non in alto, ma su in cielo. Non è un caso che in quel periodo sia nata la definizione PubliStar.
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Come le Archistar, Creativi come mio Padre, Mignani, Armando Testa, rappresentavano l'alto standard espressivo di una società in espansione. Qualcuno la definì Milano da Bere, prendendo a prestito proprio il claim della campagna Ramazzotti. Oggi lo usano dispregiativamente, non so perché. In realtà quelli sono stati anni di grande qualità ed influenza del nostro mestiere nella società. Tutto questo non c’è più."
Chiaro che viviamo anni di influencer tarocchi, di testimonial che fanno la Qua Qua Dance, di discutibili statistiche di server discutibili, di chat bot che diffondono fake news, di crollo di readership di giornali e tv. Anche la pubblicità è diventata decorazione, coriandolo, data driven creativity. Di conseguenza l'immagine dei creativi sembra quella di grigi impiegati di banca. Come è potuto accadere tutto questo?
"Sono fuori da qualche anno, ma ho idea che un tempo i grandi pubblicitari erano degli autori indiscussi e ascoltati dai media e dalla popolazione. Per usare la classica metafora del ristorante, erano dei Cracco: nessuno dei loro camerieri si poteva permettere di aggiungere o togliere sale. Oggi, non essendoci più grandi cuochi, chiunque si sente autorizzato a dire quale spezia mettere nel piatto.
E così non si sa più chi ha fatto cosa. Guarda, per esempio, le credit list delle campagne. Non ci sono più un copy, un art e un direttore creativo. Ci sono lunghe liste di decine e decine di nomi e di ruoli, anche per un pezzo insignificante: content creator, web master, SEO writer, esperti verticali di ogni tipo, strategic planner come se piovesse. Ma alla domanda 'chi ha avuto l'idea?', ammesso che ci sia un 'idea, tutti si nascondono dietro la filosofia del team. Ma ricordo che già Ogilvy diceva 'non troverai in nessun posto del mondo una statua dedicata ad un comitato'. La storia premia chi prende le decisioni. O chi ha le Idee per primo."
Insomma, mi pare che tu stia accusando la pubblicità italiana di diffusa mediocrità.
"Guarda, lascia che ti racconti di una volta che in agenzia stavo salendo in ascensore con un collega per andare a una presentazione creativa interna. Guardavamo i nostri lay out: io per primo non ero soddisfatto. Però l'altra persona, davanti ai miei dubbi, disse: 'non ti preoccupare, ho visto di peggio'. Dunque, presentammo lo stesso quel lavoro intermedio. Papà segui tutto, poi anticipò i commenti degli altri e stroncò seccamente: 'Ho visto di meglio'.
Questa per me è la rappresentazione quantica del talento e del risultato richiesto a quei tempi. Enough is not enough, come recita una frase di Lee Cloe, un grande creativo americano. La sensazione è che oggi, facendosi scudo delle crisi, delle leggi del digitale, del predominio assoluto dei finanzieri all'interno delle poche agenzie rimaste, forse non si cerca più il “c’è di meglio, cerchiamo ancora”. Ripeto, fuori dalla nostra Agenzia, sulla targa, c'era il nome di famiglia, come sulla porta delle tantissime strutture creative che rappresentavano il meglio della cultura professionale italiana. Ci metteva la faccia, Emanuele, come tutti gli altri creativi.
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Oggi, all'ingresso delle poche agenzie rimaste dopo vent'anni di Merger & Acquisition, leggo sigle e acronimi incomprensibili. Nessuna firma individuale, nessuno che si prenda la responsabilità di quello che esce. Ovviamente nessuno ottiene fama e reputazione. E avere delegato tutto a content creator e Influencer ha prodotto, oltre allo sfascio, anche una cultura della delega ad altri, riassunta nell'abuso dell'espressione 'la dittatura dell'instagrammabile'."
E' forse anche a causa della difficoltà di comunicare in un mondo in cui woke & cancel culture e il metoo hanno introdotto regole che appiattiscono? E di conseguenza sono meno apprezzati i talenti che osano andare fuori dai clichè?
"Di sicuro c’è meno talento. Chi vuole esprimersi oggi va a fare altro, non la pubblicità: tanti vanno direttamente all'estero e li perdiamo definitivamente, come creativi provocatori, come maestri per gli altri, come riferimento per i media. Stillacci, Marco Cremona, e tanti veri creativi hanno trovato la loro realizzazione altrove. Molti finiscono nei videogiochi, dove si guadagna tanto e ci sono le risorse per cercare strade nuove. Qualcuno sicuramente è stato trascinato verso l'Intelligenza Artificiale, dove ci sono tanti ingegneri e pochi creativi.
Per i prodotti che si vedono sui media, il talento non abita più nelle agenzie. Soprattutto, proprio con tutta questa debordante cultura femminista, non vedo più neanche personalità come quelle di creative fulminanti: Annamaria Testa e Sandra Mazucchelli. Non vedo presidenti di agenzia e di ADCI come a fine anni '90 Milka Pogliani, o come Anna Scotti, anche lei creativa a capo di una multinazionale già negli '80. Insomma, molta ideologia e poca creatività e influenza..."
Tinte fosche. Voglio provare a farti trovare un lampo di ottimismo con l'ultima domanda: quale attore può invertire questa triste tendenza?
"Chi può dirlo? Certo, non ci sarebbe stato carosello senza il boom economico. Quindi non basta un singolo attore. E' necessario che tutti, clienti, editori, agenzie, ritrovino il coraggio, la voglia e la competenza.
E va la sana popolarità. Nessuno parla più della pubblicità, oggi. Se si tocca questo argomento, tutti citano gli spot anni '80 o i Caroselli, perfino i ragazzini, che li riscoprono su Youtube. Insomma, abbiamo avuto un Tiro al Ribasso. Forse basterebbe ricominciare a pensare che questo è un lavoro in cui serve saper scrivere e disegnare, non scegliere un software Ai o un influencer. Si ricomincia solo da una tastiera QWERTY e da una matita HB."