Caporalato, il ritorno della schiavitù in Italia

Il caporalato merita di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano

Gustavo Cioppa
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Milano

Caporalato, il ritorno della schiavitù in Italia

di Gustavo Cioppa
Magistrato, già sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Posto che l’attività delittuosa merita sempre aspra condanna, vi sono determinati reati estremamente diffusi nel tessuto sociale italiano e particolarmente gravi, espressioni molto spesso di una vera e propria privazione della dignità umana e certamente comunque di un grande disvalore. Tra questi deve senza dubbio essere annoverato il reato di cui all’art. 603 bis del codice penale, ossia il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, meglio noto come caporalato, reato offensivo del bene giuridico rappresentato dal diritto al lavoro, bene giuridico di sicuro fondamento costituzionale, negli articoli 1 e 4 della Costituzione, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 comma 1 Cost.) e secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 comma 1 Cost.). Al di là del suo inquadramento scientifico, il caporalato sembra tristemente essere diventato una consuetudine e questo si traduce in un’inaccettabile forma di disprezzo per la vita umana.

Le condizioni umilianti e disumane dei lavoratori extracomunitari

E infatti il lavoratore, spesso proveniente da Paesi extracomunitari, deve sottostare a condizioni umilianti, soffrendo tutti i giorni condizioni di vita disumane. Quale allora il prezzo da pagare per la propria libertà? Fuggire da una situazione di miseria economica, da guerre o da condizioni di schiavitù per ritrovarsi in situazioni di assoggettamento della propria vita al volere di una persona che può disporre del corpo e della libertà morale dei lavoratori? Proprio questa è la situazione che vivono coloro che lavorano per un caporale: una condizione di pieno e assoluto assoggettamento al volere di una persona che detiene una sorta di ius vitae ac necis sui suoi sottoposti.

Il caporalato bene merita allora di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano, perché si traduce in primo luogo in un’intollerabile offesa al senso di umanità. Chi accetta le condizioni imposte dal caporale spesso lo fa perché non ha scelta: perché l’alternativa è una morte certa...e allora? Allora si è costretti a scegliere la schiavitù, per non morire, ma a costo comunque del sacrificio della dignità umana, come nel caso dei braccianti di Latina, cui venivano somministrate sostanze stupefacenti affinché essi lavorassero anche 21 ore al giorno, oppure nel caso dei braccianti di aziende agricole, come in Emilia Romagna, costretti a lavorare nelle ore più calde del giorno in questa caldissima estate. Si accetta di non avere un giorno di riposo, di lavorare per meno di 5 euro all’ora, di non potersi sposare, di vivere in fabbricati fatiscenti privi di servizi sanitari, di non poter pranzare o cenare, di non poter avere una vita sociale. La persona viene allora ridotta a oggetto, a merce.

L'ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù

Sorge allora la domanda: è questa vita o vi sono gli estremi per la denuncia non solo del reato di cui all’art. 603 bis c.p. ma anche per quelli del reato di cui all’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù)? Probabilmente il capo di imputazione ben potrebbe ricomprendere anche tale seconda fattispecie criminosa, che ben descrive cos’è la schiavitù: non un generico sfruttamento, comunque tristemente diffuso, ma la riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative umilianti e a pericolo della sua stessa vita, con pieno potere di disposizione del caporale sul corpo e sulla volontà di queste persone, ridotte a merce, private in definitiva della loro anima, poiché un “no” a questo tiranno implicherebbe, nella migliore delle ipotesi, ritorsioni e percosse, come è accaduto di recente nelle Langhe. E allora quale il prezzo da pagare per guadagnare quei pochi spiccioli per non morire di fame?

Rinunciare alla propria dignità personale e alla propria libertà: barattare una morte certa con un destino di schiavitù. La schiavitù non è allora stata abolita con il passaggio a uno Stato di diritto. La rivoluzione francese, che tanto proclamava ideali di libertà ed uguaglianza, si è del resto caratterizzata per una grande violenza e per molte morti di innocenti e non ha comunque risolto il problema della schiavitù economica, ossia di quell’atteggiamento di chi concede sì un lavoro o una fonte di reddito a una persona in difficoltà economiche, ma a un prezzo elevatissimo per quest’ultima: la rinuncia alla propria dignità. Ciò probabilmente giustifica l’affermazione di chi, come il filosofo Schopenhauer, ha sostenuto che nello Stato di diritto si è semplicemente passati dalla logica del più forte a quella del più furbo.

La consapevole malvagità del caporale

E appunto cosa diversa è la malvagità che spesso si cela dietro alla furbizia rispetto alla ragione – non mera intelligenza in senso stretto (per un approfondimento v. quanto scriveva sul tema S. Tommaso D’Aquino) -. Sotto questo profilo, il caporale è una persona astuta, ma non certo dotata di ragione, ossia di bontà morale. Egli è appunto astuto, ma malvagio, nel momento in cui adotta determinate strategie lavorative o fiscali per eludere il versamento delle imposte, sottopagando i propri dipendenti e non pagando loro i contributi dovuti per legge.

Nonostante questa malvagità, molte persone, spesso provenienti da altri Paesi, per sfuggire a guerre o a situazioni di sostanziale privazione della vita, vengono in Italia...per ritrovarsi spesso in situazioni ancora peggiori, come ben espresso da un bracciante africano intervistato nel contesto del caporalato pugliese. Questo è allora l’eterno ritorno della schiavitù. Si tratta di un dramma vissuto anche in altri ambiti, come quello della prostituzione, ove il pappone recluta queste ragazze costringendole a prestazioni sessuali, spesso dietro percosse (si rientrerebbe anche in questo caso, come in quello del caporalato, nell’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù ex art. 600 c.p., alla luce del dettato letterale di tale ultima norma, che punisce “chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”).

Il caporalato deve essere sradicato dal tessuto sociale

Se allora vale nel nostro ordinamento il principio di effettività del medesimo (cfr. sul punto Kelsen, Zagrebelsky, Rodotà) e se le norme giuridiche costituzionali possiedono dunque una reale, diretta ed immediata portata precettiva, va da sé che, fenomeni come quelli del caporalato, come pure quelli, ad esso similari, dello sfruttamento della prostituzione, tutte manifestazioni di un vero e proprio assoggettamento continuativo della persona, con costrizione di questa di prestazioni umilianti, non solo meritano aspra condanna da parte di tutti, ma necessitano di un pronto ed effettivo sradicamento dal tessuto sociale. Ciò è possibile solo attraverso un recupero delle forme etiche tipiche dell’essere umano e di una stessa forma etica dell’economia, un’economia e un mercato del lavoro cioè che non tendano allo sfruttamento e al mero accaparramento del profitto, con conseguente svalutazione del sostrato umano che, come sorregge i rapporti umani, così sorregge quelli lavorativi.

In un certo senso, il tema in esame si accosta ai pericoli dell’intelligenza artificiale, alla considerazione cioè dell’essere umano non più come persona ma come mero prodotto e, stante tale inaccettabile qualificazione come merce, il diritto in capo al datore di lavoro di disfarsi di esso una volta divenuto non più produttivo. In tal senso è imprescindibile un recupero dell’equità. Il riferimento è senza dubbio a quanto dispone l’art. 1374 del codice civile, secondo cui “il contratto obbliga alle parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”. Il riferimento all’equità appunto, equità che non può essere intesa quale elemento residuale ma rappresentante piuttosto un principio fondamentale che permea tutto l’ordinamento, giuridico e non solo.

L'emblematica e drammatica vicenda di Satman Singh

L’equità però non è un precetto solo giuridico e astratto-teorico. Essa deve essere concretamente posta in essere nei rapporti umani, compresi quelli lavorativi. Ecco allora che non devono più verificarsi fatti come quello, recente, di Satman Singh, bracciante trentunenne di origine indiana, che, anziché essere prontamente soccorso a seguito di un infortunio sul lavoro, ove gli era stato rimasto tranciato un braccio e schiacciati gli arti inferiori, è stato abbandonato davanti alla porta di casa, poggiato sopra una cassetta utilizzata per la raccolta degli ortaggi.

Il caso di Satman è solo l’ultimo di una serie di soprusi che tuttora proseguono, con una spirale simile a quella dei femminicidi. Tutto questo chiaramente è inaccettabile e merita pronta risposta, sotto più versanti, con particolare riferimento all’abbattimento dei costi del lavoro, alla premiazione della qualità attraverso dei rating aziendali, specialmente ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici, rating che, per essere rilasciati, tengano in considerazione le condizioni di lavoro all’interno dell’impresa, alla previsione di una specifica causa di esclusione automatica dalla partecipazione alla gara per l’impresa che commetta il reato di caporalato e di una sospensione della procedura di gara in caso di indagini a carico della stessa per la medesima ipotesi di reato, oltre a un più generale e necessario coinvolgimento solidale ed etico verso una forma di morale economica, che valorizzi maggiormente il ruolo della persona.

Un richiamo ai doveri della solidarietà umana

In tal senso militano la tesi dell’impresa come istituzione, l’istituto dell’impresa sociale e quello dei contratti di solidarietà. Queste tre fattispecie evocano una più generale forma di eticità dell’economia, ossia un’economia (letteralmente dal greco “oikos”, cioè “casa”) capace di fornire tutele e protezioni, un’economia in senso autentico che, rifuggendo da logiche improntante esclusivamente al profitto e tendenti a svalutare la centralità della persona, ripensi a se stessa.

Un recupero etico questo che peraltro molte imprese virtuose stanno ponendo in essere, con l’assunzione di lavoratori invalidi e di persone anziane, di modo che, quella “fame di contratto” ben enunciata da un bracciante africano raccontava della sua grande delusione rispetto alle promesse di una vita migliore e delle condizioni disumane di lavoro e abitative, sia un dato che certamente deve essere ricordato, ma che possa dimostrarsi inattuale, se...tutti...agiremo insieme, adempiendo agli inderogabili doveri di solidarietà umana che il nostro senso di onestà e di autenticità morale ci impone.