L'arte al di fuori dell'arte: Dubuffet e l'Art Brut al Mudec di Milano

Il Mudec di Milano ospita una mostra dedicata a Jean Dubuffet ed agli esponenti della cosiddetta “Art Brut”. Emarginati ed outsider che hanno coltivato l'arte laddove non si pensava potesse fiorire

di Gian Piero Rabuffi
Milano

L'arte al di fuori dell'arte: Dubuffet e l'Art Brut al Mudec di Milano

Trovare l'arte al di fuori dei canoni dell'arte. Questa sembra essere stata la missione intrapresa da molti dei principali protagonisti della contemporaneità. Da Marcel Duchamp e Andy Warhol, che l'hanno provocatoriamente cercata negli oggetti d'uso più comune, agli alfieri delle prime avanguardie come Picasso, Braque, Giacometti, Derain, folgorati dalle produzioni artigianali delle società all'epoca definite tribali. C'è stato chi, come i surrealisti, ha cercato ispirazione nell'inconscio e chi, come gli espressionisti astratti, nella pura gestualità istintiva.

Tra tutte queste traiettorie, una delle più singolari resta quella di Jean Dubuffet. "La vera arte è sempre là dove uno non se l'aspetta. Laddove non si pensa ad essa e non si pronuncia il suo nome. L'arte detesta essere riconosciuta e salutata col suo nome. Fugge immediatamente", ha affermato il fondatore, teorico e principale animatore dell'Art Brut. Né movimento, né corrente. Ma l'introduzione sovversiva nel sistema di un nuovo concetto di arte. E di "opere eseguite da persone indenni da cultura artistica". Laddove la parola più rivelatoria è quell' "indenni" che tradisce l'insofferenza di Dubuffet per le "idee trite e ritrite dell'arte", per gli "intellettuali", per la tradizionale nozione dell'arte che sarebbe danneggiata e corrotta dal suo essere anche fatto culturale. Una posizione per molti versi paradossale, quella che Dubuffet coltiva e difende per tutta la vita a partire dal secondo dopoguerra.


 

Dubuffet e le persone "indenni da cultura artistica"

Ma chi sono queste persone "indenni da cultura artistica?" Con una sintesi brutale: i matti. Gli outsider, gli emarginati, gli irregolari. Gli ospiti dei manicomi e delle cliniche psichiatriche che manifestano una innata inclinazione verso l'arte figurativa. E che vengono segnalati a Dubuffet dalla sua rete di collaboratori. Adolf Wölfli, probabilmente il più noto, Gaston Dufour, Aloïse Corbaz, Carlo Zinelli. Tutti accomunati da una biografia drammatica se non tragica. E da eventi che li hanno condotti all'infermità mentale. Queste e altre persone, nel loro esilio dal mondo esterno e dalle sue costruzioni sociali, trovano nell'arte una terapia, uno sfogo, una necessità impellente. Ed esprimono un talento sulle cui origini aleggia invariabilmente un affascinante enigma. Dubuffet è molto rigoroso nella sua selezione. C'è troppa cultura, ad esempio, in Antonio Ligabue. I motivi degli esponenti dell'Art Brut hanno radici che sembrano crescere e nutrirsi esclusivamente all'interno delle loro stesse menti febbricitanti.

Nondimeno, suggestivamente, emergono tendenze e ossessioni ricorrenti. Come evidenzia la selezione ammirabile al Mudec di Milano, dove è in corso sino al 16 febbraio la mostra "Dubuffet e l'Art Brut.  L’arte degli outsider", a cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi. Un percorso di circa settanta opere provenienti dalla Collection de l'Art Brut di Losanna, che conta nel complesso oltre settantamila tra disegni, dipinti, sculture, opere tessili.


 

Art Brut tra corpi e credenze

Due in particolari sono gli indirizzi che evidenziano le curatrici: il corpo e le credenze. Il primo filone è rappresentato ad esempio dai lavori della cinese Guo Fengyi, che esplorano i flussi energetici che attraversano il corpo, mentre Giovanni Bosco rappresenta anatomie frammentate, capaci di evocare una tensione emotiva e fisica. Nei disegni di Giovanni Galli, il maschile e il femminile si fondono in un equilibrio delicato, mentre Sylvain Fusco offre una visione del corpo legata all’erotismo e al piacere sensuale. Un soggetto, come correttamente illustrato dalle curatrici, che è essenzialmente associato al tema dell'identità, della percezione e coscienza di sè. Specie in contesti di isolamento e reclusione nei quali il corpo diviene l'unica cosa reale e fonte di ispirazione.


 

La tematica delle credenze, interpretata in una prospettiva ben più ampia della sola dimensione religiosa, abbraccia invece anche convinzioni personali e autentiche, stupefacenti mitologie individuali. Gli autori dell’Art Brut, interrogandosi sui fondamenti dell’esistenza, sul significato della vita e della morte, così come sul proprio destino, spesso si distaccano dai dogmi tradizionali o, in alcuni casi, li reinterpretano in chiave personale. Trovando tra arte e metasifica una propria personalissima connessione con l'universo, dalla forza taumaturgica. Marie Bouttier, ad esempio, trovò ispirazione nel suo profondo interesse per l’occulto: a sessant’anni, durante stati di trance medianica, iniziò a creare disegni automatici a matita, popolati da creature ambigue in cui foglie e motivi vegetali si trasformano in insetti, pesci o larve. Giovanni Battista Podestà, fortemente influenzato dalla religione cattolica, sviluppò una visione manichea dell’esistenza, traducendo nella sua opera una denuncia verso le corruzioni sociali. Madge Gill, invece, credeva in un legame costante con i defunti e attribuiva la paternità delle sue creazioni ad un’entità superiore, lasciando che fossero gli spiriti a guidare la sua mano.

Rigorosamente autodidatti. E questo lo rivela inequivocabilmente l'esuberanza espressiva di cui gli esponenti dell'Art Brut sono portatori. Ma di fronte alle visioni nitide e assolute di un Adolf Wölfli o di un Augustin Lesage si fa fatica a credere che essi siano davvero stati completamente avulsi da qualsiasi contatto con la tradizione artistica canonica, quella occidentale e cristiana in particolare.


 

Il paradosso Dubuffet: artista vero ma paladino degli anti-artisti

E Dubuffet? Il fondatore dell'Art Brut rappresenta a sua volta un caso del tutto singolare. La sua biografia non è certo quella di un emarginato dalla società. Ma, quella di un uomo, al contrario, per lunghi tratti della sua vita troppo assorbito dagli obblighi della società per potersi dedicare alla sua autentica passione, l'arte. Che abbraccia a tempo pieno solo quarantenne, dopo aver assolto ai propri doversi verso l'impresa di famiglia. E' da qualche parte lungo questo itinerario sconnesso che matura in Dubuffet profonda diffidenza verso l'establishment e le sue convenzioni artistiche. Ed il disegno che lo conduce all'arte degli emarginati anche per cercare in essa una fonte vergine di ispirazione.


 

Ma per quanto lo avrebbe forse desiderato, Dubuffet non potrà mai dipingere come Wölfli. Perchè è impossibile estirpare da dentro di sè la consapevolezza della dimensione di artista nel proprio tempo, persino nel tentativo di negare ogni codice espressivo pregresso. L'arte di Dubuffet resta dunque fatto culturale in dialogo con il mondo esterno. Un fatto culturale per giunta di grande significato, come testimoniano alcuni degli esempi osservabili al Mudec, come "Le Géologue" del 1950, con il suo uso radicale dei materiali, o i successivi cicli delle "Texturologies" e delle "Matériologies", celebrazioni del suolo e della terra. La sua stagione più nota è infine quella dell'"Hourloupe", che va dal 1962 al 1975. Dominata da bizzarre figurine dalla consistenza magmatica di cellule di colore.

 

Dubuffet tra gli artisti più rilevanti del ventesimo secolo: lo dimostrerà a posteriori la sua eredità. Nelle figure dell' "Hourloupe" non si possono infatti non identificare le necessarie capostipiti dei personaggi di famosi graffitisti americani degli anni Ottanta come Keith Haring e Jean Michel Basquiat. Anche loro per molti versi personalità ai margini dei nuovi contesti urbani post-contemporanei. Ma allo stesso tempo fieramente consapevoli della loro alterità nel consesso dell'arte contemporanea.

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