Turandot, grande spettacolo visivo nel centenario di Puccini

L'opera di Puccini alla Scala: uno spettacolo magnifico con la direzione di Michele Gamba e la regia di Davide Livermore

Di Francesco Bogliari
TURANDOT
(Credit fotografico: Brescia e Amisano-Teatro alla Scala)
Milano

Turandot, grande spettacolo visivo nel centenario di Puccini 

Un appello, una petizione, una preghiera. A tutti i sovrintendenti, direttori musicali, direttori d'orchestra d'Italia e dell'intero orbe terracqueo. Nel centenario della morte di Puccini fate un vero regalo al grande musicista lucchese: rappresentate “Turandot” solo fino all'ultima nota scritta da lui, senza finali ricostruiti da altri. Come avvenne alla prima rappresentazione del 25 aprile 1926 quando Arturo Toscanini disse “qui Giacomo Puccini morì”, depose la bacchetta e si chiuse il sipario.

Non ce ne vogliano Franco Alfano e Luciano Berio, musicisti di grande valore: i loro finali non sono, perché non possono essere, il finale che avrebbe scritto Puccini. Anche perché Puccini non era riuscito a trovare la soluzione e si era impantanato ben prima che il terribile male lo portasse via nel giro di poche settimane. I 38 fogli di appunti che aveva con sé a Bruxelles nell'ultimo viaggio erano ancora lontani da una soluzione, e chissà quanto tempo ancora ci sarebbe voluto. 

Turandot, un “finale” musicalmente e teatralmente perfetto

Per cui a cento anni di distanza (98 dalla prima rappresentazione) credo che il pubblico a livello planetario possa accettare che l'opera finisca con la morte di Liù, che peraltro è un “finale” musicalmente e teatralmente perfetto. Poi l'azione si sospende e si entra nel regno magico dell'incompiuto. Del resto, pensate se qualcuno avesse chiesto a uno scultore di finire la Pietà Rondanini di Michelangelo: vengono i brividi solo a ipotizzarlo.

Riflessioni a latere di uno spettacolo magnifico, quello che va in scena in questi giorni alla Scala, con la direzione di Michele Gamba e la regia di Davide Livermore.

Cominciamo con la regia, la cui cifra vincente è quella visiva: l'ambientazione in una specie di “Metropolis” cinese degli anni '20 del Novecento, distopica, cupa e peccaminosa, ha una logica coerente con quello che si vede nell'opera: torture, uccisioni, crudeltà, corruzione politica. Magnifiche le scene di Eleonora Peronetti, Paolo Gep Cucco e dello stesso Livermore, magnifici i costumi di Marina Fracasso, perfetto l'uso delle luci di Antonio Castro. Ma il voto più alto va alle creazioni video di D-Wok, da molti anni presenti nelle produzioni di Livermore: spettacolare la presenza quasi costante di una enorme sfera che si riempie di immagini e colori di volta in volta diversi a seconda delle situazioni: dal rosso cupo al grigio funebre al sole finale. Applausi.

Meno convincente l'uso delle masse, eccessivo, si direbbe quasi zeffirelliano essendo tutto il resto agli antipodi dell'estetica del regista fiorentino la cui storica (o archeologica) mise en scene di “Turandot” gira ancora nei principali teatri mondiali. E qualche perplessità suscita anche la presenza del mimo che “doppia” Turandot: questa dei mimi (o meglio, del loro uso eccessivo) nell'opera è una moda che si spera finisca presto.

Infinite sfumature di una partitura che è piena di suggestioni

Buona, molto buona, ma non eccezionale la componente musicale. Michele Gamba è stato chiamato a sostituire il direttore designato Daniel Harding: il quarantunenne direttore milanese spinge troppo sul pedale del volume, coprendo spesso i cantanti e perfino il coro. Conosciamo Gamba come fine pianista e camerista, e il suo “Rigoletto” di due anni fa era stato eccellente, per cui ci sorprende un po' questa interpretazione che non riesce a cogliere tutte le infinite sfumature di una partitura che è piena di suggestioni più o meno esplicite di Ravel, Debussy, Stravinskij e – nella prima parte del secondo atto - del Richard Strauss di “Ariadne auf Naxos”.

Turandot era Anna Netrebko. Premessa doverosa: il vostro cronista non si è mai iscritto al fan club di Annuska, nemmeno quando era negli anni del suo massimo splendore, men che meno oggi che si cominciano a intravedere i primi segni di declino. Splendido animale da palcoscenico, carisma  immenso, capacità di dominare la scena senza pari, ma la sua voce, che ci è sempre parsa troppo “grassa” (non è un termine musicologicamente corretto, ma una metafora per far capire cosa intendo), ha cominciato a farsi sempre più intubata, con i gravi gonfi; anche se certi acuti smorzati sono ancora meravigliosi. Grande successo di pubblico.

Calaf era Yusif Eyvazov, a lungo detto “signor Netrebko” ma il recente divorzio dalla moglie lo ha liberato da questo “peso” (ammesso che sia stato un peso in termini di carriera...). Cantante solido, tecnicamente ferrato, non sbaglia una nota, tiene fiati lunghi e anche se non ha il timbro più bello che si possa trovare in natura, è sicuramente un tenore eccellente. 

La migliore del cast vocale è stata a nostro modesto parere Rosa Feola: una Liù delicata, piena di sfumature, meraviglioso fraseggio, linea di canto straordinariamente fluida, mezze voci perfette. Cosa vogliamo di più? E a soli 38 anni ha tutta la vita davanti.

Sicuro, intenso, potente il Timur di Vitalij Kowaljow, meno convincente l'Altoum di Raul Gimenez. I tre ministri Ping, Pong, Pang (Sung-Hwan Damien Park, Jinxu Xiahou e Chuan Wang) hanno anche delle belle voci, ma la lingua in cui cantano ha poco a che fare con l'italiano (e qui è mancata forse un'adeguata preparazione da parte dei collaboratori del direttore). Il terzetto del secondo atto, “Ho una casa nell'Honan”, che comincia malinconico e finisce parodistico, è una delle perle più sofisticate, per ritmo e orchestrazione, di Puccini e Gamba purtroppo non riesce a restituirne la magia ipnotica.

Sul Coro istruito da Alberto Malazzi, protagonista dell'opera al pari dei tre personaggi principali,  non si può che confermare quello che diciamo da anni: è la più alta istituzione musicale italiana. Stop.

Ah, mi stavo dimenticando dei lumini. Nell'intervallo fra secondo e terzo atto le maschere hanno distribuito agli spettatori dei lumini votivi di plastica griffati Scala/Turandot/Puccini 1924-2024, che sono stati accesi per circa un minuto dopo la morte di Liù, quando sulla scena è stata proiettata l'immagine del maestro con la scritta “qui Giacomo Puccini morì”. Una trovata “piaciona” che ci si sarebbe potuti aspettare all'Arena di Verona o a Torre del Lago, meno alla Scala. Ma il pubblico, ormai fatto quasi completamente di danarosi turisti stranieri ben lisciati e leccati, ha gradito. E, si sa, il cliente ha sempre ragione.

Recensione riferita alla rappresentazione del 28 giugno 2024.

 

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