Elezioni, il Cdx può fare "cappotto". L'analisi di D'Alimonte non convince
Elezioni 25 settemnre, i numeri parlano chiaro
Elezioni 25 settembre, senza voto disgiunto plurinominali e uninominali sono strettamente connessi
Il Presidente della Repubblica ha sciolto le Camere e il governo ha fissato la data delle elezioni politiche al 25 settembre. Si voterà col Rosatellum, la legge elettorale approvata nel novembre 2017 e con la quale sinora si è votato una sola volta, il 4 marzo 2018. Come sia finita quattro anni fa con la stessa legge elettorale lo sappiamo, come finirà adesso lo possiamo solo pronosticare.
Il vecchio centrodestra - salvo sorprese - correrà unito quantomeno con le tre forze politiche di sempre, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia (e la formazione centrista di Cesa), mentre il centrosinistra – dopo lo scacco matto servito mercoledì in Senato da Salvini e Berlusconi a Letta, Renzi e Draghi - dovrebbe correre diviso. Conte è ora visto dai Dem - e per la verità non solo da loro - come il fumo negli occhi.
Il Pd correrà allora in coalizione coi cosiddetti “centristi”, vale a dire Azione, Italia Viva, più Europa e Italia al Centro di Toti, che potrebbero dare vita ad un nuovo soggetto politico indebitamente denominato “Area Draghi”, oltre alla sinistra rappresentata da LeU o, dopo la scissione di Sinistra italiana, per meglio dire Articolo1 di cui è segretario Roberto Speranza. E pure qui ci sono ulteriori divisioni perché Calenda non intende correre con il nuovo partito Di Maio, mentre Letta è di parere opposto. Se tale frattura divenisse irreversibile, “Area Draghi” correrebbe fuori coalizione, dunque il centrosinistra sarebbe ancora più spezzettato. Staremo a vedere. L’unica cosa certa per ora, salvo sorprese, è che il M5S difficilmente sarà coalizzato col Pd. Insomma, il “campo-largo” è finito al camposanto.
Nel fronte del dissenso regna la frantumazione. Ci sono almeno tre raggruppamenti “antisistema”. Italexit, la formazione di Paragone che pare la più forte e che può aspirare al raggiungimento della soglia di sbarramento. Mentre pare difficile che Ancora Italia, il Pc di Rizzo, Riconquistare l’Italia ed altri ancora (Ingroia, Mattei, Donato etc.), che correrebbero uniti sotto la lista Uniti per la Costituzione, riescano a raccogliere in tre settimane le firme necessarie (375 in ciascun collegio plurinominale per entrambe le Camere). Lo stesso dicasi per la nuova formazione di Adinolfi-Di Stefano, Alternativa per l’Italia.
Dopo il “taglio” dei parlamentari, che questa volta non saranno più 945 ma 600 (400 deputati e 200 senatori, di cui rispettivamente 392 e 196 eletti in Italia, 8 e 4 eletti all’Estero), sono stati ridisegnati anche i collegi. Alla Camera 147 seggi sono attribuiti col sistema maggioritario dei collegi uninominali a turno unico e 245 col sistema proporzionale dei collegi plurinominali, dove ciascuna lista può presentare da due a quattro candidati, senza possibilità per l’elettore di esprimere le preferenze. Negli uninominali risulta eletto il candidato che ottiene più voti, nei plurinominali risultano eletti in ordine decrescente tanti candidati quanti sono i seggi attribuiti a ciascuna lista in proporzione ai voti ottenuti (se la lista ha diritto ad un solo seggio, risulta eletto il candidato indicato come primo, e così via fino al quarto). Al Senato 74 seggi sono attribuiti col sistema maggioritario dei collegi uninominali a turno unico e 122 col sistema proporzionale dei collegi plurinominali, secondo gli stessi meccanismi che si sono appena visti. Per l’elezione della Camera il territorio nazionale è suddiviso in 49 collegi plurinominali, per il Senato in 26. A ciascun collegio plurinominale sono collegati in media tre collegi uninominali. Soglia di sbarramento per ciascuna lista, coalizzata o no, è del 3% su base nazionale. Per le coalizioni di liste il 10%. Non è possibile il voto disgiunto, cioè l’elettore non può votare un candidato del collegio uninominale e una lista del plurinominale che non sia a lui collegata (e viceversa).
Il fatto che non esista la possibilità di esprimere il voto disgiunto crea una sorta di implicito premio di maggioranza; infatti, i voti dell’elettore espressi in favore della lista prescelta nei collegi plurinominali si estendono automaticamente in favore del candidato collegato nei collegi uninominali, creando un effetto-traino. Se si considera che negli uninominali il seggio è attribuito al candidato che ottiene più voti, per conquistarne tanti sarà sufficiente per le coalizioni (o liste che corrono da sole) prevalere anche di un solo voto in più sugli altri nei collegi plurinominali. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Immagini il lettore un rettangolo con dentro tanti cerchi e collegato a questo rettangolo tre palloncini. Bene, il rettangolo è il collegio plurinominale, i cerchi sono le liste (singole o in coalizione) del plurinominale, i palloncini i collegi uninominali. Non essendoci voto disgiunto, la lista o coalizione di liste che nel plurinominale ottiene più voti acchiappa tutti e tre i palloncini, cioè tira con sé i tre collegi uninominali. Ciò che è accaduto nel 2018 al centrodestra nel Centro-Nord e al M5S nelle sette regioni meridionali, determinando la situazione di stallo. Il centrodestra si fermò al 37% dei voti e il 43% dei seggi, il M5S al 32,7% dei voti e al 40% dei seggi. Nel caso in cui non si fosse verificata al Sud l’onda gialla da parte dei 5Stelle (non pronosticata dai sondaggi), il centrodestra avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi anche solo col 38-40% dei voti.
Vediamo come stanno le cose questa volta.
Roberto D’Alimonte recentemente ha scritto che “l’esito delle prossime elezioni si giocherà nei collegi uninominali della Camera e soprattutto del Senato. Non è stato così nel 2018”. Non siamo d’accordo. I collegi, circa tre uninominali per ciascun plurinominale, sono strettamente connessi. L’uno è dipendente dall’altro per l’assenza del voto disgiunto. Facciamo un esempio. Se nel collegio plurinominale X la coalizione A ottiene 101 voti, la coalizione B 100 e la lista C 99, la colazione A – per effetto dell’estensione automatica dei voti dalla lista del plurinominale al candidato dell’uninominale collegato (e viceversa) – si tira dietro anche tutti e tre i collegi uninominali, cioè li vince tutti e tre (in questo meccanismo vanno considerate piccole eccezioni, come ad esempio le due soglie, quella del 3% e quella dell’1%, ma non è questa la sede per approfondirle). Pertanto, non si può dire che la partita stavolta si gioca negli uninominali. Su quali basi tecniche D’Alimonte fa questa affermazione? La partita si gioca in ciascun collegio plurinominale e di conseguenza, per i meccanismi visti finora, negli uninominali collegati. Certo è che, se i candidati degli uninominali sono persone di qualità e rispettate nei territori, è molto più facile l’effetto-traino, ma sempre nell’ottica che plurinominale e uninominali sono strettamente connessi per l’assenza di quel voto disgiunto di cui D’Alimonte non tiene conto.
Torniamo ai numeri. Ad oggi il centrodestra è dato nei sondaggi nella forbice 44-48%, mentre centrosinistra e M5S, come si è visto, dovrebbero correre da soli, dividendo le loro forze e dunque lasciando al centrodestra la possibilità di fare cappotto ovunque. È pur vero che al posto del M5S ci saranno in coalizione col Pd i “centristi” di Italia Viva, Azione, più Europa etc, ma in buona sostanza si tratta di ex Pd che ritornano alla base attraverso un nuovo soggetto politico che sfrutterà il nome di Draghi. Tuttavia, il bacino elettorale, salvo qualche oscillazione, è sempre quello. Non saranno certo Toti & Company a fare la differenza. In termini di applicazione dei meccanismi della legge elettorale tutto questo significa che se il centrodestra prevalesse in gran parte dei collegi plurinominali, ottenendo in media il 45-46% dei voti su base nazionale, potrebbe aggiudicarsi non meno del 60% dei seggi in entrambe le Camere (al Senato anche di più se consideriamo che nelle Regioni più piccole la coalizione più votata potrebbe aggiudicarsi tutti i seggi anche nei plurinominali). Ecco perché D’Alimonte sbaglia a dire che questa volta la partita si gioca negli uninominali. Senza voto disgiunto, come si è visto, plurinominali e uninominali sono strettamente connessi.
Resta la “questione meridionale”. Nel 2018 il M5S ottenne circa il 40% dei seggi in Parlamento con meno del 33% dei voti in quanto al Sud fece “asso piglia tutto” con picchi in alcuni collegi plurinominali del 47-49%, risultati che questa volta non si potranno ripetere per ovvie ragioni. Ma attenzione. Se Di Battista entra in partita e punta, come programma elettorale, sulla “questione sociale” e quindi anzitutto ad allargare la platea dei destinatari del reddito di cittadinanza, in qualche collegio del Sud potrebbe prendere buoni voti indebolendo il centrodestra e rafforzando il centrosinistra, soprattutto in Campania, Puglia, Molise, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, ridimensionando il successo del centrodestra.
Per non rischiare di far vincere il centrosinistra nelle regioni del Sud grazie ai voti che il M5S toglierebbe al centrodestra, Salvini e alleati potrebbero giocare di anticipo e non proporre in campagna elettorale l’abrogazione del reddito di cittadinanza, anzi, bene farebbero a confermare la misura ma con aggiustamenti concreti che non creino distorsioni al mercato del lavoro. C’è poi il problema dell’astensionismo (con un 40% circa ancora di indecisi) che come noto più aumenta e più avvantaggia la sinistra. Tutto dipenderà dai temi della campagna elettorale, dalla capacità dei leaders di convincere gli elettori e per alcuni anche di chiedere pubblicamente scusa ai milioni di italiani oppressi da una gestione della pandemia e da una vaccinazione forzata fallimentari dal punto di vista sanitario. Una occasione come questa non ricapiterà facilmente al centrodestra. Certo è il “vecchio” centrodestra, ma dall’altra parte non c’è niente di nuovo, anzi non c’è proprio niente.