Pd, il congresso? Ultimo treno. Resa dei conti? Allora rischia di scomparire

Pd, il processo politico a Letta non ha senso

Di Massimo Falcioni
Politica

Che cosa deve fare il Partito Democratico per uscire dalle sabbie mobili, recuperare i voti perduti, estendere il sistema delle alleanze, cambiare la sua natura e la sua struttura?


Le beghe interne al Partito Democratico in vista del congresso e il rapporto conflittuale fra i partiti all’opposizione dimostrano che non c’è oggi un’alternativa fattibile e credibile all’attuale governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Tale alternativa non è nemmeno dietro l’angolo se gli sconfitti alle urne del 25 settembre, Pd in testa, considerano la vittoria storica della leader di Fratelli d’Italia semplicemente un incidente di percorso.Così le opposizioni si consolano ripetendo che la coalizione di destra ha avuto gli stessi voti del 2018 (28% dell’elettorato) non comprendendo, fingendo di non comprendere, il valore politico del consenso che si è concentrato sul partito di Giorgia Meloni (26%) proprio per rimarcare la svolta che gli italiani volevano punendo una parte e premiandone un’altra.

Tant’è che anche negli ultimi sondaggi, due mesi e mezzo dopo il voto delle politiche, la tendenza si conferma, rafforzandosi: FdI lambisce il 30% salendo al 29,6% (totale centrodestra 45,6%), il M5S secondo partito (17,2%), PD ancora giù al 15,7% con il centrosinistra al 24,6%. Insomma, chi ancora non sa interpretare il valore storico della vittoria politica del centrodestra, in particolare di Giorgia Meloni e del suo partito, e addirittura mette in discussione la legittimità della vittoria e quindi il mandato a governare da parte della nuova premier e del suo esecutivo, si arrampica sugli specchi andando incontro a nuove sconfitte a cominciare da quelle alle prossime elezioni regionali del 12 febbraio in Lombardia e Lazio.

La vera opposizione al governo Meloni, dati gli attuali rapporti di forza, non è in Parlamento ma nei forti gruppi di pressione esterni quali Confindustria, sindacati, banche, editori, lobby che perseguono interessi particolari: l’opposizione più dura è nella cosiddetta nomenklatura che si sente messa all’angolo, defraudata del suo potere di condizionamento. Sono questi a temere il governo Meloni capace di fare e disfare anche sul piano costituzionale cambiando volto e sostanza al Paese. E il PD, diventato il partito guardiano dell’establi­shment economico e finanziario, è andato ko, fuori dai giochi. Qui s’impone la domanda: che cosa deve fare il Partito Democratico per uscire dalle sabbie mobili, recuperare i voti perduti, estendere il sistema delle alleanze, cambiare la sua natura e la sua struttura?



Il processo politico a Letta e la resa dei conti nei gruppi dirigenti non ha senso. Serve un bilancio politico sul Partito democratico dalla sua nascita a oggi per capire se ci sono le condizioni per rilanciarlo o se non è l’ora del colpo di spugna avviando la rifondazione di un nuovo, vero partito della sinistra democratica che coltivi l’idea del cambiamento. Tutte le vecchie formule del Pd si sono logorate e sono oggi improponibili e i nuovi candidati non fanno altro che riproporre una minestra riscaldata, peraltro scaduta. Ogni candidato e ogni supporter dei candidati alla segreteria vivono in un proprio mondo nel terrore che il Pd vada a scatafascio, chiusi in una difesa della gestione amministrativa della realtà (i candidati sono principalmente amministratori locali) senza una visione critica dell’esistente, nel gorgo dell’ubriacatura della globalizzazione capitalistica, di fatto chiusi nello status quo. Insistere a dire che, dati del 25 settembre alla mano, gli avversari della destra sono la maggioranza degli elettori, significa non capire il significato della “maggioranza politica” e rendere oggi impensabile la possibilità di costruire a breve un’alternativa di governo, dall’opposizione.

Nato il 14 ottobre 2007 dalle ceneri di Ds ex Pci e Margherita ex sinistra Dc, il Partito Democratico ha mutato via via volto e sostanza: partito del potere per il potere e dei quaquaraquà, da bandiera della classe operaia e dei ceti più deboli a “partito della Ztl”, centro di potere dei ceti borghesi dei quartieri alti. Partito che da quando è nato non è mai riuscito a vincere le elezioni politiche ma è entrato in tutte le maggioranze di governo che si sono formate negli anni successivi al crollo del governo di Berlusconi nel 2011. Adesso il Pd è a un punto di non ritorno, isolato, a terra, fuori gioco. Emblematico che il titolare della tessera N°1 del Pd, l’editore imprenditore Carlo De Benedetti in una recente intervista sul Corriere della Sera ne abbia decretato la fine: “Il Pd ha conquistato la borghesia e ha perso il popolo. E’ un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un’elezione”.

Che cosa deve fare il Partito Democratico per uscire dalle sabbie mobili, recuperare i voti perduti, estendere il sistema delle alleanze, cambiare la sua natura e la sua struttura? Se si continua a credere nella sacralità del Pd, unico partito depositario della verità, allora non sarà De Benedetti a decretarne la fine, ma gli elettori. L’Italia aveva bisogno di una destra democratica e l’ha trovata con la leadership di Giorgia Meloni. Adesso serve una sinistra democratica, tutta nuova nelle idee, nei fatti, nei gruppi dirigenti. Per il Pd, chiamato a fare un bilancio politico reale in un congresso che non sia solo manfrina e una resa dei conti tra dirigenti, è l’ultimo treno.  

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