Dalla mortadella allo Stelvio, così Prodi sogna il Colle (senza dirlo)
Dalle aperture al Cav al libro autobiografico, il professore a parole si chiama fuori dalla corsa per il Quirinale. Ma…
Alla salita del Quirinale dice di preferire quella dello Stelvio. Romano Prodi lo mette nero su bianco nel suo ultimo libro “Strana vita, la mia”, scritto insieme a Marco Ascione. Sarà davvero così o per il professore con la passione per la bicicletta e il ciclismo, fondatore dell’Ulivo e due volte presidente del Consiglio, è solo una tattica per stare a ruota prima della volata finale?
Non è da escludere che in parte sia anche un modo per esorcizzare la brutta pagina dei 101 che otto anni fa ne sabotarono l’elezione al Colle più alto. Ammesso, poi, che furono davvero 101. Il mistero è ancora fitto e il diretto interessato, per esempio, tende a sostenere che in realtà furono almeno “118 o 120”. Comunque sia, sfilando i petali della margherita quirinalizia il nome dell’ex numero uno della Commissione europea c’è eccome. Tra l’altro proprio insieme a quello del suo più grande avversario politico, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi che il prof bolognese ha sconfitto per ben due volte nella corsa a Palazzo Chigi (anche se nel caso del secondo mandato si trattò per lo più di un pareggio e non di una vittoria piena). A volte ritornano, è il caso di dire. Ma con una differenza notevole, perché Prodi allontana da sé qualsiasi ipotetico scenario, mentre il Cav quasi ci crede e spera. E nel frattempo compulsa giornalmente il pallottoliere.
“A ottantadue anni non posso certo sentirmi salvatore della patria. Non ho l’età, insomma. E poi voglio dirlo una volta per tutte. Sono rimasto un uomo di parte. Forse per questo motivo mi è piaciuto fare il capo del governo, e alla salita del Quirinale preferisco quella dello Stelvio. Finché è possibile”, afferma l’ex presidente del Consiglio nel libro.
Capitolo chiuso, dunque? Le parole nascondono sempre un non detto. E, poi, ci sono i fatti che possono sempre essere letti e interpretati in maniera diversa. Chi si sarebbe mai aspettato, per esempio, che il leader e fondatore dell’Ulivo oltre che del Partito democratico spendesse delle parole in difesa del leader di Arcore? Eppure è accaduto il mese scorso, quando sostenne che proporre una perizia psichiatrica per Berlusconi fosse “una delle ennesime follie dell’Italia”. Già a luglio dello scorso anno, in realtà, di fronte a un ipotetico ingresso di Forza Italia in maggioranza, aveva aperto, dicendo che non “sarebbe un tabù. Anche perché - aggiunse – la vecchiaia porta saggezza”.
La stessa autobiografia appena data alle stampe, poi, con tanto di presentazione a Galleria Sordi a Roma, è uscito guarda caso lo scorso 16 settembre. E la tempistica mai come adesso conta. Non che l’allievo di Nino Andreatta, che ha fatto di Giuseppe Dossetti una guida morale, uomo figlio del ceppo democristiano di sinistra, abbia bisogno di biglietti da visita o di farsi notare per rientrare nella corsa al Colle. La sua storia di impegni e ruoli sia istituzionali che accademici ne fanno a prescindere una figura ingombrante. Lo sanno bene gli eventuali aspiranti nel suo stesso campo, da Dario Franceschini a Walter Veltroni.
A parte i due mandati da premier, ministro dell’Industria nel governo monocolore Dc a guida Andreotti dal 1978 al 1979 (fu anche responsabile del dicastero di Via Arenula ad interim nel 2008), due volte presidente dell’Iri (dall’82 all’89 e poi di nuovo nel 1993) e prima ancora a capo della società editrice il Mulino, oltre che fondatore di Nomisma. Per Prodi, inoltre, è stato decisivo il quinquennio a partire dal ‘99 da presidente della Commissione europea. Erano gli anni dell’ingresso nell’euro, ma anche dell’allargamento dell’Ue a 25.
E poi c’è la carriera accademica e l’intensa attività di ricerca nell’ambito dell’Economia industriale. Non a caso nella letteratura internazionale, il suo nome figura accanto a quelli di Giacomo Becattini, Franco Momigliano e Paolo Sylos Labini, fra i fondatori della “Scuola italiana di Economia Industriale”. Dopo i primi passi alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, coronati poi con la cattedra di ordinario di Economia e politica industriale nel 1971, Prodi ha anche varcato i confini nostrani per approdare, sfidando le rigidità geopolitiche, sia in Usa che in Cina.
Dal febbraio 2009, infatti, è professor at-large alla Brown University negli Stati Uniti, mentre dal 2010 insegna alla China Europe International Business School di Shanghai. Se a tutto questo si aggiungono i numerosi riconoscimenti ricevuti in giro per il mondo - dalla Spagna alla Francia, passando per Lettonia e Giappone -, oltre a quelli accademici honoris causa (ben 39), tutto si può dire tranne che l’ex leader dell’Ulivo sia come un “semaforo sempre fermo”, per citare la famosa imitazione di Corrado Guzzanti. Almeno sul fronte della vita accademica. E chissà che proprio le parole del comico non si attaglino meglio al quadro politico di oggi, di gran fermento per la ricerca del candidato ideale alla presidenza della Repubblica, e quindi non rispecchino bene il mood attuale dell’ex premier: “Tutte le macchine corrono, hanno fretta, fanno le corna al finestrino – diceva Guzzanti-Prodi - il semaforo è fermo, governa in mezzo alla strada, non si muove, è tranquillo”.
Una cosa è certa: l’impresa dello Stelvio, scalando i 2.750 metri del celebre Passo dal lato più duro (quello altoatesino), per uno sportivo allenato come l’ex presidente del Consiglio, è molto più alla portata del soglio quirinalizio. In questo caso scollinare è arduo e occorre davvero molto fiato. Al confronto persino il difficile equilibrismo del suo variegato governo post politiche del 2006 fu una passeggiata di salute rispetto alla sequela di trame, strategie e trabocchetti che vedremo in Parlamento durante l’elezione del capo dello Stato. Qui non c’è spogliatoio che regga, volendo ricordare il conclave organizzato dall’allora premier alla Reggia di Caserta l’11 e 12 gennaio del 2007. Una due giorni per tentare di tenere unita la sua squadra di ben 103 membri tra ministri (26), viceministri (10) e sottosegretari (66).
E’ vero, non ci sono più Clemente Mastella e Antonio Di Pietro che litigano. Non c’è neppure Massimo D’Alema, che dopo averlo sostenuto durante la nascita del Prodi uno poi comunque tramò fino a prenderne il posto a Palazzo Chigi. In compenso, però, i Turigliatto non mancano mai. E soprattutto, ci sono pur sempre i dalemiani, così come ci sono i renziani. Insomma, ci sono tutti coloro che hanno contribuito ad affossarlo già nella precedente corsa al Colle e che, parole di Prodi, “hanno fatto molto male al centrosinistra”. Last but not least, c’è pure il carattere stesso del professore: chi lo conosce lo descrive come spiritoso, ma anche permaloso e vendicativo. Qui non centra il soprannome di “mortadella” che gli è stato cucito addosso e che finì con l’ispirare il banchetto in Aula al Senato il 24 gennaio 2008: dopo il voto che certificò il venir meno della fiducia all’esecutivo, infatti, i senatori di An Domenico Gramazio e Nino Strano si abbandonarono ai festeggiamenti a base di spumante e, appunto, fette di mortadella.
Non è questo appellativo, però, a far arrabbiare l’ex capo del governo. Anzi, ne va orgoglioso, come spiegò nel 2013 proprio partecipando a una manifestazione del noto salume: “Da cibo proletario si è raffinato", disse. "E' un po' il cammino dell'Italia, la mortadella. E io spero di aver seguito lo stesso cammino”. Sono ben altre le cose che Prodi si è legato al dito. Di sicuro si è tolto più di un sassolino dalle scarpe, a cominciare da quando decise di non rinnovare la tessera del Pd nel 2013, ma non ha smesso di farlo neppure in tempi recenti. Libro a parte, che pure è puntellato di messaggi chiari ai suoi “compagni”, come non ricordare per esempio, il giudizio tranchant nei confronti di Matteo Renzi durante la crisi del Conte due? “Per mediare bisogna essere in due e Renzi ha lo stesso obiettivo di Bertinotti: rompere”, disse a gennaio scorso.
Poi, certo, la storia stessa del prof di Scandiano (Reggio Emilia) è costellata di ritorni. E’ stato così quando fu richiamato all’Iri nel 1993. O nel 2005, quando è tornato alla politica italiana per ricevere l’anno dopo l’incarico di formare il suo secondo governo. Chissà che l’ex premier non venga tirato dentro di nuovo anche per la successione a Mattarella. E’ naturale, il fattaccio del 19 aprile del 2013 rimane. Si sa come andò a finire, nonostante a fare il nome di Prodi fosse stato l’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani all’assemblea dei grandi elettori dem e nonostante la proposta fosse stata approvata con standing ovation degli astanti. La storia però non è solo corsi e ricorsi storici. Vedremo…