Di Maio contro Di Maio. Le contraddizioni. Così il ministro rinnega se stesso

Dall’uno vale uno al Movimento che non si cambia da fuori, il titolare Esteri resetta la sua storia. I commenti ad Affari degli ex M5s Giarrusso e Paragone

di Paola Alagia
Politica
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M5s, la scissione di Di Maio e le falle nel discorso d’addio

Il divorzio di Luigi Di Maio dal Movimento cinque stelle si è consumato da poche ore, ma già cominciano a emergere con forza le contraddizioni di quest’“operazione verità”, per dirla con le parole che ha usato il ministro degli Esteri ieri sera. Ebbene sì: si è guadagnato la scena nel giorno del solstizio d’estate, ma lo scacco matto di Gigino a Giuseppe Conte, a ben guardare, non è riuscito. L’obiettivo era proprio sfruttare l’abbrivio della risoluzione in Parlamento per giustificare l’abbandono della casa madre. Peccato, però, che il M5s, pur a costo di dare ancora una volta l’impressione di un partito tutto fumo e niente arrosto, ha votato a favore del documento. Tant’è che una esponente di Forza Italia come la senatrice Licia Ronzulli ha avuto buon gioco ieri stesso nell’osservare: “Visto che il gruppo dei Cinque stelle al Senato ha votato la risoluzione, perché questa rottura se non per prepararsi a qualcos'altro?”.

 

 


 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salta subito all’occhio, inoltre, il tempismo con cui l’operazione è stata conclusa. Guarda caso prima che l’Elevato Beppe Grillo calasse su Roma (trasferta che a questo punto pare sia saltata) e prima che il nodo sulla regola aurea del doppio mandato venisse al pettine. Una questione, a onor del vero, che teneva sulle spine tanti dimaiani e continua a creare patemi tra diversi contiani. Ma torniamo alla scissione.

E’ vero che un’operazione come quella messa a segno ieri un minimo di preparazione l’avrà richiesta. Probabile, e nulla di male in questo, che Di Maio avesse messo al corrente già a suo tempo il primo ministro Mario Draghi. E’ stato anche al Colle dal presidente della Repubblica, quel Sergio Mattarella di cui nella sua fase movimentista era arrivato a chiedere l’impeachment, salvo poi scusarsi.

Ma rimane pur sempre una mossa consumata in fretta e furia. E la gatta frettolosa, si sa, fa i gattini ciechi. Le contraddizioni, non a caso, oggi lo inchiodano. A cominciare dal quel “l’uno vale l’altro” che ribalta completamente la narrazione decennale del Movimento. L’uno vale uno, per tradizione, non ha a che fare con l’appiattimento e il disprezzo del merito e delle competenze, come hanno sempre sostenuto più o meno strumentalmente gli avversari del M5s, ma con la rappresentanza, l’assenza di filtri e deleghe, in definitiva con la possibilità che ognuno ha di partecipare alle decisioni in prima persona. Ieri, però, l’ex capo pentastellato ha usato l’argomento dei detrattori storici dei grillini, facendo riferimento proprio ai talenti individuali.

E che dire, poi, dei j’accuse sferrati dal Movimento pure durante la leadership di Di Maio a chiunque lo abbandonasse? Anche qui era tutto un susseguirsi di “tradimento agli elettori”, “abbandoni per tenersi i soldi” e soprattutto richieste di dimissioni dalle cariche elettive. Oggi si scopre che per Di Maio e i suoi non vale. Appena tre settimane fa, inoltre, quando l’europarlamentare Dino Giarrusso decise di sbattere la porta, il ministro aveva commentato: "Se qualcuno non è d'accordo può restare nel Movimento e portare avanti le sue idee".  Delle due l'una: o ha cambiato idea in questo breve arco temporale oppure ha altri piani. 

Una contraddizione alla quale proprio Giarrusso lo inchioda. Interpellato da Affaritaliani.it dice: “Di Maio ha detto a me che non si cambiano le cose da fuori e poi ha fatto lo stesso. Non lo giustifico - aggiunge -, ma non mi stupisce dal momento che oggi siamo di fronte a una forza sclerotizzata e autocratica. Anche uno come lui non riesce a incidere da dentro, a riprova che non è più possibile fare politica nel M5s”.

La denuncia di scarso spazio per il dialogo lanciata proprio da Di Maio, però, è un’altra falla nel suo discorso d’addio (non è stata una conferenza stampa, infatti). Mutatis mutandis, guarda caso era la stessa accusa che gli venne rivolta quando il leader era lui. Con tanto di documento - era il settembre 2019 e da lì a qualche mese Gigino si sarebbe dimesso – sottoscritto da ben 70 senatori che ne chiedevano la testa, invocando maggiore collegialità nelle decisioni.

L’apertura alle interlocuzioni esterne - per adesso sono i sindaci “vera interfaccia dello Stato”, ma vedremo se il discorso si allargherà anche a esponenti di altre forze politiche - è un ulteriore pesante reset che pesa sul ministro. Il M5s, infatti, si è sempre caratterizzato per il suo veto ad accogliere politici proveniente da forze estranee.

Le contraddizioni tuttavia non finiscono qui. “L’ultimo grande imbroglio - chiosa con Affari Gianluigi Paragone, un tempo nel Movimento e oggi leader del partito Italexit – lo ha fatto dicendo che bisogna scegliere se stare dalla parte giusta della storia. Ma Di Maio è in Parlamento perché doveva cambiarla e non reinterpretarla. Non solo, quindi, ha tradito pienamente il mandato elettorale, insieme a tutti quelli che lo hanno seguito, ma confonde la Storia con il potere”. Secondo Paragone, insomma, in quattro e quattr’otto ha “resettato tutto e ora punta a costruire qualcosa che sia funzionale al Palazzo. La vendetta politica - conclude - la consumeremo nell’urna. Li andremo a prendere uno per uno”.