Educatori in fuga, servizi in crisi: il dramma sociale che la politica ignora

In una fase di forte difficoltà sociale, potenziare il welfare sarebbe doveroso. Invece, i suoi pilastri vengono malpagati e maltrattati. E quindi fuggono

Di Lorenzo Zacchetti
Politica
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2022, fuga degli operatori sociali: perché nessun partito se ne occupa?

 

La campagna elettorale è già entrata nel vivo e quindi fioccano promesse più o meno credibili. Eppure, nemmeno il leader politico più fantasioso ha ancora pensato di mettere mano a un problema che sta mettendo in ginocchio i servizi sociali: la fuga degli educatori professionali, che prendono stipendi da fame. 

Questo silenzio è indicativo della grave mancanza di interesse nei confronti una figura alla quale viene demandata la cura dei soggetti più fragili, ovvero minori (anche maltrattati), disabili, anziani, tossicodipendenti, donne sottratte alla tratta e malati psichiatrici. Nonostante la delicatezza del compito loro affidato, agli educatori è riservato un riconoscimento sociale decisamente carente. La maggior parte degli osservatori (politici compresi) fa confusione tra gli “educatori” volontari e non formati che abitualmente operano presso oratori e taluni centri estivi e gli educatori professionali, che invece sono laureati e, in base al loro percorso, lavorano in ambito sanitario oppure socio-pedagogico.

Il trattamento economico degli educatori professionali è decisamente poco invidiabile. Se provvisti di titolo abilitante, guadagnano un lordo mensile di euro 1.594,15, circa 1.200 euro netti. Il compenso è quindi sotto la media nazionale, ma soprattutto impallidisce al confronto con paesi non troppo lontani da noi: in Svizzera o in Germania, per lo stesso lavoro si può guadagnare oltre il doppio, ovvero tra i 2.400 e i 3.400 euro lordi. Adeguare i compensi sarebbe doveroso soprattutto per la qualità della prestazione intellettuale che viene richiesta a chi dedica il suo tempo all'integrazione di persone che sono ai margini della società e che portano con sé pesanti gravami di sofferenza, vissuti di violenza e svantaggi psicosociali. Va da sé che questo tipo di lavoro comporti l'esposizione a molteplici rischi: dalla responsabilità civile e penale ai non infrequenti casi di minacce e percosse nei confronti di chi opera in prima linea.

Non solo. Questi stipendi già risicati vanno poi parametrati al numero di ore effettivamente lavorate. Circa il 90% degli educatori lavora nelle cooperative sociali, le quali si assicurano i bandi delle amministrazioni pubbliche. Può quindi capitare che gli incarichi al singolo operatore non arrivino a coprire le 38 ore settimanali previste dal contratto e quindi che il lavoratore in questione, per percepire uno stipendio intero, debba adattarsi a seguire più casi, magari saltabeccando nell'arco di una stessa giornata da un centro all'altro, con mezzi propri e senza alcun rimborso per il tempo impiegato negli spostamenti. Oppure, prendendo il caso di chi lavora su turni nelle comunità alloggio, che si debba adattare al discutibile concetto di “notti passive”: l'educatore garantisce la presenza notturna presso il servizio, ma viene pagato solo se si verifica qualche emergenza che lo porta ad intervenire direttamente. In caso contrario, il suo fondamentale presidio non viene nemmeno compensato, magari a fronte della permanenza per 24 ore filate nella struttura. Un ulteriore problema è l'assoluta impossibilità di avanzamento di carriera. Dopo aver maturato un'esperienza adeguata, un educatore può al massimo sperare di diventare coordinatore di un servizio o assumere un ruolo direttivo all'interno di una cooperativa, ma, a fronte di responsabilità che salgono in maniera esponenziale, l’aumento economico è soltanto di poche centinaia di euro.

Anche la più spiccata propensione solidaristica crolla di fronte a condizioni di lavoro del genere, che stanno provocando una vera e propria fuga dal welfare. Nell'anno in corso, diversi servizi sono andati in crisi per le dimissioni degli operatori, fattore che li ha costretti a ridurre le proprie prestazioni, se addirittura non a chiudere i battenti. È stata travolta dalla crisi anche la Regione Lombardia, che lo scorso giugno ha addirittura emanato una deroga rispetto ai criteri di accreditamento, in pratica autorizzando a impiegare come educatori del personale non provvisto dei titoli sopra descritti. L’alternativa era negare l’assistenza a chi ne aveva bisogno. E diritto.

Come risolvere il problema? Il primo passo è intuitivo: bisogna necessariamente rivedere il contratto collettivo nazionale ed alzare gli stipendi in maniera congrua alla formazione e all'impegno richiesto agli educatori. Tuttavia, questo non basterebbe, senza due ulteriori passaggi. Le amministrazioni locali devono impegnarsi ad emanare bandi che non siano incentrati sul ribasso dell'offerta economica, bensì sulla qualità del servizio offerto. In una gara allo spendere meno, è del tutto ovvio che le cooperative sociali partecipanti dovrebbero in qualche modo abbassare il costo del personale, che è praticamente l'unica variabile in questione. Conseguentemente, si arriva al terzo passaggio, ovvero il controllo – ex ante ed ex post – sugli assegnatari degli appalti, per evitare che la “guerra dei poveri” tra le cooperative si combatta arruolando personale non adeguatamente formato e, quindi, sottopagato

In questo poco edificante quadretto, non deve quindi stupire che molti educatori abbiano mollato i propri incarichi (e i propri assistiti) per optare per la “MAD”, ovvero la messa a disposizione delle scuole che, anch'esse in crisi, si rivolgono a queste liste per tappare i buchi con delle supplenze. Qui, oltre al danno, c'è la beffa: può ricorrere a questo strumento chi ha un diploma di scuola magistrale, ma non chi ha un diploma diverso e poi si è laureato come educatore professionale: benché più formato del proprio collega, non può insegnare! Lo stesso vale per le scuole dell'infanzia: le ragazzine appena uscite dalle magistrali sono considerate idonee ad occuparsi dei nostri figli, mentre delle educatrici professionali che magari da anni seguono minori problematici all'interno delle comunità invece no.

Paradossi che rappresentano un'ulteriore dimostrazione di come questa figura sia misconosciuta, rispetto ad altri operatori del welfare come lo psicologo e l’assistente sociale, che godono di maggiore prestigio sociale e compensi più adeguati. Si tratta di un retaggio culturale, una sorta di altra faccia della medaglia derivante dalla nostra solida tradizione di volontariato (non solo cattolico), che ha sopperito a molte mancanze del welfare pubblico. La prevalenza della dimensione del “buon cuore”, di per sé encomiabile, non ha favorito il riconoscimento professionale. La diversa considerazione dello stesso mestiere in Paesi come Germania e Svizzera ne conferma la base culturale, ma questa consapevolezza non può essere una scusa per prolungare un'inazione che dura ormai da decenni. Vedremo quale sarà il primo partito ad aprire gli occhi e ad intervenire sul tema, prima che chiudano altri servizi preziosi, in questa fase così delicata sul piano delle diseguaglianze sociali.