I cattolici e il ritorno del grande centro: il convitato di pietra del voto
Si potrebbe dire parafrasando del Terzo Polo l’Araba Fenice: che ci sia ciascun lo dice ove sia nessuno lo sa
Quale casa per i cattolici nel panorama politico?
Le elezioni del 25 settembre si avvicinano a grandi passi e nel turbinio cronofago di questi giorni, stretti tra emergenze internazionali come Energia, Pandemia e Guerra emerge un ricorrente dibattito e cioè il ruolo dei cattolici - orfani della Democrazia Cristiana - in politica. La Democrazia Cristiana ha segnato la storia dell’Italia, nel bene e nel male, fino alla sua dissoluzione che fece seguito a Tangentopoli e alla caduta del Muro di Berlino. Nacque nel 1943, quando c’era ancora la guerra e finì nel 1994. La DC è sempre stato il primo partito politico italiano tranne che alle Europee del 1984 in cui vinse il PCI e la cosa preoccupò non poco Mosca ma Enrico Berlinguer garantì lo status quo. La Democrazia Cristiana erede del Partito Popolare Italiano fondato da Don Luigi Sturzo e chiuso dai fascisti, ha in Alcide De Gasperi il suo nume tutelare. La sua storia è troppo nota pe ripercorrerla anche se brevemente.
Bastano le parole del suo ultimo segretario, Mino Martinazzoli, a far riflettere: "Non fummo tempestivi nel considerare che la fine del comunismo in Europa chiudeva, in Italia, una fase storica, quella della DC condannata a governare. Molti, apprendendo che non si trattava di una condanna all’ergastolo, diventarono malinconici e pretesero di replicare, artificialmente, un passato che non c’era più. Per me, io pensavo che se ci avessero assistito generosità e coraggio, avremmo potuto essere, nella nuova stagione politica, di più noi stessi, meno il nostro potere e di più il nostro progetto. Anche la scelta di evocare la sigla del Partito popolare di Sturzo, all’inizio del ’94, si ispirava a quel proposito. Ma era ormai troppo tardi. Non fummo capaci, in un contesto sempre più reattivo, di convincere gli italiani che le nostre ragioni erano di più dei nostri torti".
Da allora ci sono stati continui tentativi di ricostruire un “Grande Centro” che ha avuto diversi Avatar a partire dal nuovo PPI, per giungere a strani vecchietti che dicono di possedere il simbolo della grande corazzata che fu. Una delle incarnazioni più recenti è il cosiddetto “Terzo Polo” di cui già parlava Francesco Rutelli ai tempi di Alleanza per l’Italia, ma questo soggetto politico, erede della DC, non si concretizzò mai o almeno non nelle forme di una adeguata concretezza elettorale. Ora si presenta alle prossime elezioni addirittura con un questo nome, guidato da Matteo Renzi e Carlo Calenda, che però sembrano più Il gatto e la volpe di Pinocchio che leader politici capaci di ereditare e soprattutto gestire la grande eredità della Balena Bianca.
Si potrebbe dire parafrasando del Terzo Polo l’Araba Fenice: che ci sia ciascun lo dice ove sia nessuno lo sa.
Ma questo, a guardar bene, è solo un corno del problema perché l’altro in realtà va cercato al di là del Tevere, in Vaticano. Perché questo è, volenti o nolenti, il vero convitato di pietra con cui i leader politici più o meno “laici” debbono giocoforza confrontarsi. C’è sempre una sorta di pudore istituzionale a parlare di commistione tra laicità dello Stato e religione. Eppure non solo la DC riuscì a farlo in maniera assolutamente vincente per mezzo secolo ma incredibilmente fu capace di mantenere un alto tasso di laicità. La vicenda di Giulio Andreotti sta lì a dimostrarlo.
L'area moderata sempre più orfana
Grande amico di Papa Paolo VI, tenne però un atteggiamento guardingo quando vestiva il doppio ruolo di cattolico e uomo delle Istituzioni, proprio perché aveva paura di essere tacciato di contaminazioni. Un po’ come fece il Partito comunista Italiano con le Brigate rosse. Eccesso di realismo? Forse. Recentemente il dibattito si è riacceso quando il politologo gesuita padre Francesco Occhetta, già consigliere comunale e giornalista professionista a Civiltà Cattolica e a Famiglia Cristiana ha dichiarato: "Il dato politico più incerto è il destino dell'area moderata, sempre più orfana di appartenenza, di rappresentanti e di riferimenti culturali. Eppure, questo bacino di consenso che ha storicamente nutrito la democrazia italiana include ancora milioni di voti provenienti in gran parte dal mondo cattolico ma anche da chi si astiene".
Le parole del gesuita (come Papa Francesco) sono state una specie di scossa elettrica che ha attraversato il Vaticano perché con Papa Francesco la linea di non ingerenza è stata abbastanza chiara: “Non voglio immischiarmi nella politica interna italiana», mentre il politologo parla espressamente di “milioni di voti” a disposizione. Posizione quella del Papa ovviamente si attesta quella del cardinal Pietro Parolin, Segretario di Stato del Vaticano. Ma se l’attento Parolin, per cui il Papa ha recentemente avuto parole di grande stima per la difficile trattativa dei cattolici cinesi, ha un compito istituzionale a cui tener fede diverso è il ruolo di un’altra figura fondamentale in questo dibattito, e cioè quella del cardinal Matteo Maria Zuppi, numero uno della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e nipote del cardinal Carlo Confalonieri che dice all’Osservatore Romano: "Il mondo va da un'altra parte. Vuol dire certo che non dobbiamo omologarci o dire quello che il mondo vuole sentirsi dire ma sapere dire le verità di sempre nella cultura o nelle categorie di oggi. Questa è la sfida ed è tutt'altro che cedevolezza ma responsabilità, altrimenti ripetiamo una verità diventata dura da accettare".
E poi ancora: "Non abbiamo ancora saputo fare qualcosa di meglio di quanto proposto dalla secolarizzazione. Paolo VI e Mazzolari lo dicevano già ai loro tempi: tanti sono lontani e il problema non sono loro, siamo noi! C'è in loro una domanda, implicita, di una Chiesa più evangelica, più madre e per questo esigente e coinvolgente, che non fa la matrigna e dice: Te lo avevo detto io". Tuttavia, il vescovo di Bologna, parla ancora di dottrina, se vogliamo di catechesi e non di politica, rispettando il cordone sanitario che il Papa ha voluto stendere intorno al delicato tema. Siamo davanti ad un atteggiamento chiaramente post – conciliare e le citazioni di Paolo VI il Papa che ha chiuso il Concilio Vaticano II e di Don Primo Mazzolari che scrisse nel 1937 un importante saggio, “Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione”, sono rivelatrici di una spinta all’azione sociale ma senza dare indicazioni politiche. Il recente episodio del Vescovo “monsignor” Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia della Vita, che è passato per “fan dell’aborto” ha riacceso prepotentemente i riflettori del rapporto tra Chiesa e Società. Per questo le parole di Occhetta non sono passate affatto inosservate in Vaticano.