Il Papa, Mattarella, il Dalai Lama e i comizi inutili

"I discorsi ufficiali sono un fastidio inevitabile. Ma attenderli, filmarli, discuterli, commentarli e applaudirli, è assurdo"

L'opinione di Gianni Pardo
Politica
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"Sono inutili perfino quelli di insediamento del nuovo governo, visto che non s’è mai visto un programma di governo seriamente messo in atto"

I discorsi del Papa, dei Presidenti della Repubblica, del Dalai Lama e di chiunque non detenga un potere effettivo, sono completamente inutili. L’affermazione potrebbe suonare offensiva se non si badasse al significato etimologico dell’aggettivo “inutile”. Infatti quei discorsi non sono utili e non possono esserlo.

Un mio amico lettore, forse in un momento di malumore, ha affermato che io “amo la sopraffazione”. Che è come dire che lo studioso della “Shoah” è uno sterminatore seriale, che l’oncologo diffonde il cancro o, per tornare ai nostri studi liceali, che Machiavelli era un uomo immorale.

Machiavelli ed io (che onore essere appaiati, anche se sul banco degli imputati) sosteniamo soltanto che la politica è dominata dalla forza. Perfino quando non sembra. Clausewitz ha detto che la guerra sta alla politica come il contante sta ai titoli di credito. Il denaro è il “sottinteso costante dei titoli e dei contratti” come la guerra è il “sottinteso costante della politica internazionale”. Nella vertenza Ucraina-Russia, perché si può essere sicuri che la Russia sia l’aggressore? Perché - a parere di tutti, inclusi i protagonisti – in caso di guerra la Russia vince e l’Ucraìna perde. Dunque l’unico aggressore possibile, fra i due, è la Russia.

Ciò che domina la realtà pubblica è la nuda forza, attuale o minacciata. Constatarlo non è “cattiveria”: è placida osservazione etologica. E per questo i discorsi dei Presidenti della Repubblica, anche quando hanno la nobile intenzione di indicare la retta via, non influenzano il percorso della politica.

I politici non hanno un problema di “conoscenza” (“Che cosa sarebbe giusto fare?”) ma un problema di interesse personale o del partito (“Che cosa mi conviene fare?”). Chi fa politica può anche identificare un “interesse nazionale”, ma si assumerà l’onere di perseguirlo soltanto quando potrà farlo vantaggiosamente per sé e per la sua parte. Se invece il costo o anche soltanto il rischio sono alti, ognuno mantiene un basso profilo. “Rinviamo, ci penserà il prossimo governo”.

Prendiamo la riforma della giustizia. Che essa sia necessaria lo sanno tutti. Che la riforma del 1993 sull’immunità parlamentare sia stata perniciosa, anche questo sanno tutti. Che la mano libera lasciata all’irresponsabilità dell’ultimo pubblico ministero di fresca nomina sia un disastro, anche questo è noto lippis et tonsoribus. Come ha detto lord Acton, “Il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente”.

E allora, come mai non si riforma la giustizia? La risposta è scontata: i magistrati fanno paura. A tutti. Incluso il Presidente della Repubblica. In una situazione del genere, che cosa volete che contino le parole di un galantuomo, magari sinceramente afflitto dallo spettacolo della giustizia in Italia? E se non cambiano niente, perché non dovrei definirle inutili? Proprio non riesco a capire come gli italiani possano tanto amare la vuota retorica.

Nelle condizioni il politico si chiede: “Chi me lo fa fare? Attualmente io non sono sotto processo e per giunta, se mi muovessi seriamente, potrei essere affondato da un’accusa inventata o da un falso pentito”. L’Italia è infatti un Paese in cui le calunnie sono talmente potenti da poter distruggere un galantuomo (Enzo Tortora) o anche un presidente della Repubblica (Giovanni Leone). Oggi dicono che saremo costretti dall’Unione Europea a riformare la giustizia per avere i finanziamenti ed io rimango scettico. Il denaro è il migliore degli allettamenti ma la paura pesa di più.

Il colpevole vero di questa situazione incancrenita è la stessa politica che nel 1993 si è consegnata mani e piedi legati ad un ordine che presumeva sovrumano. Disdegnando con ciò - solo in base al pregiudizio del popolino secondo cui il giudice è infallibile - una lezione che risale addirittura alla Rivoluzione Francese. E per capire quanto il popolo sia disorientato, in materia di giustizia, basta ricordare Salomone, che ne è per così dire l’eponimo.

Salomone stava per squartare il bambino conteso da due madri, “per darne metà a ciascuna”, e si fermò perché la vera madre si dette per vinta, pur di salvare il bambino. Con ciò stesso smascherando l’usurpatrice. Bellissimo aneddoto. Ma guardiamolo più da vicino.

Se le due “madri”, accecate ciascuna dall’odio per l’altra, avessero acconsentito, Salomone avrebbe squartato il bambino? E sarebbe stato “giusto e saggio”, facendolo? E se non l’avesse fatto, sarebbe stato “serio”, dopo averlo solennemente promesso? Ecco la differenza fra l’amministrazione della giustizia nel mito e l’amministrazione della giustizia nella concretezza. Meglio disporre dell’esame del Dna che della saggezza di Salomone. Nello stesso modo, meglio l’immunità parlamentare dell’arbitrio politico della magistratura.

Se in vent’anni non si è capita una simile banalità, quando i guasti della nostra giustizia sono stati evidenti a tutti, che cosa volete che importino le parole del Presidente della Repubblica? Ovvio che i parlamentari le applaudano: tanto, non le prendono sul serio.

I discorsi ufficiali sono un fastidio inevitabile. Ma attenderli, filmarli, discuterli, commentarli e applaudirli, è assurdo. Sono inutili perfino quelli di insediamento del nuovo governo, visto che non s’è mai visto un programma di governo seriamente messo in atto. E allora il Presidente dovrebbe dire: “Faremo del nostro meglio”. Sarebbe poco, ma sarebbe la verità.

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