Populisti, governisti e viottolisti, rischio finale la desuetudine elettorale
Il punto di rottura non è stato il coinvolgimento di Di Maio o dei Contiani, Fratoiannini, Bonelliani, ecc. nelle stanze del centrosinistra
Populisti, governisti e viottolisti: "secondo round". Il rischio finale della desuetudine elettorale
La storia che tra Calenda e Letta non potesse funzionare era risaputa. La storia, invece, che il loro accordo potesse essere funzionale poteva starci.
Il punto di rottura non è stato il coinvolgimento di Di Maio o dei Contiani, Fratoiannini, Bonelliani, ecc. nelle stanze (o meglio nei seggi) del centrosinistra; la questione di fondo è che il viottolismo ha una sua strada che non può esser parallela al governismo stesso perché ne è contraltare. Se no diventa una sorta di complanare.
Quindi un elettorato consapevole (di centrosinistra), posto che una strada più grande risulta più agevole della predetta complanare, avrebbe scelto di indirizzare il proprio voto su ciò che avrebbe dato più fermezza d’area. Ecco, proprio su quest’ultimo concetto emerge il punto di rottura. Un’area valoriale progressista come si può conciliare con un’altra di matrice liberale e riformista?
L’unico motore di unione sarebbe stato, appunto, il fine: entrare in parlamento con il miglior dato possibile. Ma dovendo rinunciare a priori ai “compagni naturali”, il Partito Democratico, ha dovuto portare Calenda alla c.d. esasperazione da timore indotto (quello di vedersi marginalizzare tutto il percorso costruito da Azione negli ultimi anni).
Cioè quella dimensione politica per cui prima “ti metto all’angolo con un accordo, poi ti metto una bella mano di vernice addosso (così il partito più piccolo non può girare più da altre parti), poi ti dico vieni a casa e prenditi tutti i collegi uninominali”; il tutto sottacendo, però, che i collegi uninominali sono, buona sostanza, sempre liste bloccate.
Allora, il conto è semplice: perché un elettorale liberale e rifomista avrebbe dovuto votare un binomio che includesse di tutto e di più in termini di storia politica e non? Il punto di rottura è proprio in questo. Nulla di fantapolitico, ma di pratico-politico.
Quanto detto sta a significare che l’ancora di salvataggio per Calenda e Co. è darsi un certo tocco di autentico evitando compromessi con chi non si ritiene a monte “funzionare” (e non funzionale) nella stessa prospettiva: la c.d. “Area Draghi”; perdipiù come se Draghi davvero volesse, a priori, andare di nuovo a Palazzo Chigi con l’agenda fatta da altri e non con il Presidente Mattarella (nel solco tracciato in precedenza).
Dall’altra parte chi c’è? C’è un centrodestra rinfrancato dalla rottura Letta-Calenda e fiducioso che Renzi possa fare un buon risultato per due motivi almeno: il primo perché dopo le elezioni Salvini dovrebbe andare in minoranza all’interno della Lega stando alle logiche di Pontida che, ormai, vorrebbero i governatori più importanti alla guida del “carroccio” per il rilancio del must sul federalismo; il secondo perché, sempre nel dopo elezioni, Conte e Di Maio si scontreranno ancora nel senso più prossimo alla conquista di quel che rimane dello spirito del 2007. Ricordiamo tutti che Grillo a Bologna fu il mattatore di un evento nato dal rifiuto di Fassino all’interno del Partito Democratico vero?
Dietro queste immagini retroscenistiche c’è un particolare profumo di reviviscenza per una corsa al Quirinale sottotraccia: da una parte il padre dell’Ulivo ed artefice della coalizione Arcobaleno ovvero Romano Prodi; dall’altra parte un’idea prima ancora di un nome ovvero il c.d. presidenzialismo.
Dietro il sempre verde nome di Prodi c’è, però, una sempre meno consapevole elaborazione dell’identità del centrosinistra a cui, paradossalmente, è Conte che sta cercando di dare connotazione: essere progressisti ad oltranza. Chissà forse spinto dall’unico mentore che vivente: Pierluigi Bersani.
Su questo piano d’azione non sarà poco il prezzo che si prospetta di pagare il centrosinistra perché Conte sta resistendo con tutte le sue forze ai colpi ripetuti che arrivano proprio dall’area nella quale cerca di consolidare il “grillismo post grillino” (si consenta il termine).
Letta, dal canto suo, cerca di mantenere viva una speranza: tornare al Governo a prescindere dalle elezioni perché l’importante è condizionare le altre forze politiche a scendere a patti, costituzionalmente necessari o meno, per andare a Palazzo Chigi.
Ora, da qui muove una domanda a cui solo gli elettori potranno dare risposta. “Volete Voi che chi vincerà le elezioni dovrà davvero governare senza compromettere il programma offerto agli italiani oppure Volete Voi che chi perderà, comunque, dovrà andare al Governo perché l’Italia non può tollerare che la democrazia sia gestita, ciclicamente, da solo una aggregazione politica”?
La risposta non può che essere di portata referendaria posto che il rovescio della medaglia non altro è un favore al partito dell’astensione. Giustappunto agli astensionisti di professione diamo anche un ruolo in questa partita elettorale il cui secondo round inizierà tra pochi giorni e cioè quando i candidati inizieranno a chiedere il voto.
Il ruolo di questi professionisti del voto non manifestato è quasi banale. Sono i menefreghisti della democrazia e non hanno scusanti perché c’è chi è morto per dare a tutti noi, compresi loro, il diritto di voto. “Il suo esercizio è dovere civico” recita la Costituzione (art. 48). Non si venga a dire “ma tanto non cambia niente, nessuno ci rappresenta, sono tutti uguali, la politica è tutta uno squallido gioco d’interessi, ecc.”.
Ognuno faccia il suo dovere. Che di sciatteria ne è pieno il Paese. A partire da chi non educa ad andare a votare. O meglio, non fa tornare la voglia di andarci. Populisti, governisti e viottolisti il secondo round è evitare la desuetudine della Costituzione. Chiaro no?