La lunga marcia del Quarto Stato: alle radici della Festa del Lavoro

Da una società dei consumi a una società del benessere

di M. Alessandra Filippi
Politica
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Il povero Pellizza in vita non si vide mai riconoscere il valore straordinario dell’opera che con tanta fatica e tormento aveva creato

Una volta, in una Caritas, a un uomo che non aveva lavoro e andava per cercare qualcosa per la famiglia, un dipendente dandogli delle provviste gli disse:

- Almeno lei può portare il pane a casa.

E lui di rimando rispose:

– Ma a me non basta questo, non è sufficiente. Io voglio guadagnarlo il pane che porto a casa.

Gli mancava la dignità, la dignità di “fare” il pane lui, con il suo lavoro, e portarlo a casa. La dignità del lavoro, sempre più calpestata e vilipesa.

Il rispetto del lavoro e della dignità dei lavoratori affonda le sue radici nella rivoluzione industriale americana e ha una data ufficiale d’inizio: il 1° maggio 1867, giorno in cui nell’Illinois entra in vigore la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, approvata l’anno prima.

Diciannove anni dopo questa storica decisione, la Federation of Organized Trades and Labour Unions decise di far coincidere l’anniversario con il giorno di scadenza limite per estendere tale legge in tutto il territorio americano, pena l'astensione dal lavoro, con uno sciopero generale a oltranza. All’iniziativa aderirono gli operai di Chicago, in particolare quelli della fabbrica di mietitrici McCormick. La polizia, chiamata a reprimere l'assembramento, sparò sui manifestanti inermi, uccidendone due e ferendone molti altri. Per protestare contro la brutalità delle forze dell'ordine, gli anarchici locali organizzarono una contro manifestazione da tenersi nell'Haymarket Square, la piazza che normalmente ospitava il mercato delle macchine agricole. Per la città si scatenò una vera e propria guerriglia urbana che culminò, pochi giorni dopo, con il lancio - da parte degli operai asserragliati - di una bomba fatta di dinamite che uccise 6 poliziotti, ferendo oltre cinquanta persone.

Inutile dire che la reazione delle forze dell’ordine fu altrettanto cruenta, non molto dissimile da quella che il generale Fiorenzo Bava Beccaris scatenò a Milano nel 1898 contro una massa inerme e pacifica, rea solo di protestare contro il raddoppio del grano (da 35 a 60 centesimi al kg), e di conseguenza del pane, deciso dal Regno d’Italia.

In un caso e nell’altro, il numero delle vittime non venne mai stabilito. A Milano fu dichiarato che erano 80, fra i quali bambini e numerose donne. Centinaia furono i feriti e migliaia gli arresti.

Per quel massacro, al feroce monarchico Bava Beccaris venne conferita la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, accompagnata da un telegramma di congratulazioni di re Umberto I. Per le grandi masse di lavoratori, invece, «Bava Beccaris diventò “il macellaio di Milano”» che col piombo invece che col lavoro e col pane aveva sfamato gli affamati.

Questi fatti determinarono sia l’assassinio del re due anni dopo, sia la creazione di un capolavoro che rappresenta uno spartiacque non solo nella storia dell’arte, ma anche nella rappresentazione della società: Il #QuartoStato di #PellizzadaVolpedo, conservato al Museo del Novecento e da qualche giorno esposto in una sala di #palazzoVecchio a #Firenze, da dove tornerà all'inizio di luglio. Per dirla con le parole di Pellizza, per la prima volta veniva data forma al «più grande manifesto che il proletariato italiano possa vantare fra l'Otto e il Novecento».

Il primo bozzetto, del 1891, portava il titolo profetico di Ambasciatori della fame, poi cambiato nel 1895 in Fiumana, per arrivare a quello definitivo, Quarto Stato, assegnato in seguito al massacro di Milano.

Fra gli innumerevoli elementi rivoluzionari di quest’opera c’è quello di aver dato voce e forma a una classe emergente che fino ad allora non aveva mai avuto dignità di rappresentazione. Ha valore universale, e ha una carica innovativa dirompente, come dirompente è la forza sprigionata da questo fiume di umanità che sembra avanzare lento ma inesorabile, proprio come la corrente di un corso d’acqua. L’altro elemento centrale, aggiunto nei bozzetti e nelle varie prove eseguite fra il 1895 e il 1898, è la figura femminile con il bimbo in braccio. Una Madonna laica, unica nel suo genere, discendente diretta delle Madonne del popolo raffigurate da Caravaggio, collocata in quella che solo apparentemente è una posizione subordinata alla massa dei lavoratori, ma che tuttavia incarna un ruolo da protagonista, novella allegoria di tutta l’umanità. Un fermo immagine potentissimo cristallizzato in un poema scritto sul margine della tela dallo stesso Pellizza:

«S'ode ... passa la Fiumana dell'umanità

genti correte ad ingrossarla. Il restarsi è delitto

filosofo lascia i libri tuoi a metterti alla sua

testa, la guida coi tuoi studi.

Artista con essa ti reca ad alleviarle i dolori colla

bellezza che saprai presentarle

operaio lascia la bottega in cui per lungo lavoro ti

consumi

e con essa ti reca

e tu chi fai? La moglie il pargoletto teco conduci

ad ingrossare

la fiumana dell'Umanità assetata di

giustizia - di quella giustizia conculcata fin qui

e che ora miraggio lontano splende».

Il povero Pellizza in vita non si vide mai riconoscere il valore straordinario dell’opera che con tanta fatica e tormento aveva creato. Solo molti anni dopo la sua morte le venne riconosciuto il titolo di simbolo di tutto il Novecento.

Come vedete, la vita sa essere crudelmente ingiusta: premia gli assassini e i pavidi, e condanna i giusti, e spesso e volentieri anche gli artisti troppo visionari e preveggenti. La storia è disseminata di simili casi e sarebbe interessante se un giorno qualcuno si prendesse la briga di riordinarli tutti in un libro dedicato alle iniquità e soprusi alla base dell’età contemporanea.

Nell’attesa potremmo provare, ognuno nel suo piccolo, a ragionare su quelle presenti. provando a riflettere sul cambio di paradigma incontro al quale stiamo andando e con il quale siamo chiamati a misurarci.

Occorre una presa di coscienza, una conversione, come direbbe il papa: non pensare più in termini di crescita ma di progresso.

Trovare il coraggio di passare da società alle dipendenze dell’Economia ad una in cui l’economia è alle dipendenze della vita.  In estrema sintesi, da una società dei consumi a una società del benessere.