1° maggio, Ignazio Silone i 'cafoni' e la dignità del lavoro
1° Maggio, i 'cafoni' e la dignità del lavoro di Ignazio Silone.
Frettolosamente (e ingiustamente) dimenticato Ignazio Silone (1900-1978), pseudonimo letterario di Secondo Tranquilli, scrittore (ma anche giornalista e politico) italiano, nato proprio il 1° maggio del 1900, a Pescina dei Marsi, in provincia de L’Aquila, in terra d’Abruzzo.
Autentica voce del Sud, in quell’Italia che, già negli anni bui del Fascismo, provava a rialzare la testa, con romanzi come Fontamara (uscito, in prima edizione in lingua tedesca, in Svizzera, nel 1933, in lingua italiana solo nel 1945, con larghissimo successo di pubblico (ma non di critica), che davano voce alle plebi meridionali. Al pari di Saverio Strati (1924-2014), nato a Sant’Agata del Bianco, in provincia di Reggio Calabria, muratore e, poi, scrittore italiano, che con opere come Noi lazzaroni, A mani vuote, Tibi e Tascia, Il selvaggio di santa Venere (con il quale si aggiudicò il Premio Campiello), e tante altre, seppe interpretare il Sud più vero, senza, cioè, lo sguardo folklorico di altri, pur celebratissimi, giunti da Torino, che videro e raccontarono un Sud di maniera, tra il magico e il macchiettistico.
La ricerca artistico-espressiva di Ignazio Silone fu sempre caratterizzata da un grandissimo rigore etico, e da un’attenta (e misurata) mimesi linguistica. Oltre al già citato capolavoro, Fontamara, mi piace, qui, ricordare, almeno, Il segreto di Luca, Il seme sotto la neve, L’avventura di un povero cristiano, con il quale vinse il Super Campiello, e Severina (uscita postuma, nel 1990, con la curatela della moglie del defunto Silone, Darina Laracy, vincendo il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante).
Fontamara narra di un piccolo paesino del Sud d’Italia, la cui popolazione povera subisce il peso del regime fascista, e di sventure secolari. Storia del proletariato contadino meridionale sfruttato, deriso e ingannato, da parte (anche) del ceto dirigente locale, che, a parole, ne cura e ne difende gli interessi, ma che, nella realtà, è ceto parassitario e privo di scrupoli morali (e civili).
Basta citare, da questo romanzo di Silone, il personaggio così ambiguo e cinico di don Circostanza, espressione dell’intellettuale meridionale, paternalista e filogovernativo, che si fa forte con i deboli, ma pavido e pusillanime nei confronti dei potenti (come il ricco e cinico Impresario di Fontamara). In particolar modo, l’episodio della deviazione di un misero corso d’acqua, poco più che un ruscello, da parte dell’Impresario, a danno della comunità contadina di Fontamara, dal quale pur prendevano l’acqua per i loro poderi.
Il “furto” dell’acqua, infatti, è il cuore narrativo del romanzo di Silone (autentica macchina narrativa). Dinanzi alle proteste dei contadini di Fontamara, e ai loro propositi bellicosi, si erge il paternalismo furbo di don Circostanza, il quale, fingendo di prenderne le difese, si propone come intermediario tra loro e l’Impresario, escogitando una bonaria (e cristiana) soluzione di mediazione, per ridurre gli anni della durata dello sfruttamento esclusivo, da parte dell’Impresario, dell’acqua di quel ruscello. Don Circostanza ricorre alla furba idea di sostituire il vocabolo "anno", che tutti conoscono, con quello misterioso di "lustro", per lasciare, sostanzialmente le cose come le aveva deciso l’Impresario, ma dando ai fontamaresi l’impressione di averli favoriti:
A Fontamara si discusse molto per indovinare quanto tempo fossero dieci lustri. Baldissera pretendeva che si trattasse di dieci secoli.
«Non potrebbe trattarsi di dieci mesi?» cercò d’insinuare Marietta. Ma nessuno raccolse la sua opinione.
In ogni caso, dieci lustri significavano per Fontamara la fame a breve scadenza. Ai piedi della collina, i campi e gli orti, abbandonati dal ruscello, assumevano ogni giorno un aspetto più desolante. E come se il Padre Eterno si fosse messo d’accordo con l’Impresario, dalla fine di maggio non aveva più piovuto.
Il raccolto bruciava lentamente. Sulla terra arida e assetata si aprivano larghi crepacci [...].
Per Fontamara significava la fame perché i prodotti delle altre poche terre da noi affittate o possedute bastavano normalmente per pagare le tasse, l’affitto e le altre spese, mentre i prodotti dei campi irrigui ci fornivano l’alimentazione, pane di granoturco e minestra di legumi. Il furto dell’acqua ci condannava a un inverno senza pane e senza minestra. Era una cosa possibile? Nessuno di noi cercava neppure di assuefarsi a una simile idea. Ma a chi ricorrere?
L’imbroglio dei dieci lustri, venuto dopo l’imbroglio dei tre quarti e tre quarti, aveva aperto gli occhi anche ai ciechi. In quelle due occasioni noi eravamo stati ingannati a regola d’arte dall’uomo al quale avevamo sempre affidato la tutela dei nostri interessi.
Don Circostanza, il "galantuomo», l’«amico del popolo", espressione, come scrive Silone, di quella gente
servizievole verso i proprietari, ma a patto di avere l’immunità nelle cattiverie contro i poveri. Gente senza scrupoli.
Fontamara somiglia a tanti altri villaggi meridionali, precisa lo stesso Silone nella Prefazione alla storia, dal momento che i contadini poveri si somigliano, ovunque vivano:
i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici.
Per aggiungere, subito dopo:
Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.
Le ceneri di Ignazio Silone, ancora oggi, riposano a Pescina, per suo espresso desiderio:
"Mi piacerebbe di esser sepolto così, ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino, in lontananza"
Autore, Ignazio Silone, da riscoprire, e da rileggere, in quanto voce autentica del Sud d’Italia (e del mondo).