Ginosa (Ta), Il Paradiso dei cafoni - commedia in due atti

A Ginosa (Ta) "Il Paradiso dei cafoni" – commedia in due atti, tratto dal capoòavoro di Tommaso Fiore "Il cafone all'Inferno".

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PugliaItalia
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di Trifone Gargano

Scritta da Adele Carrera, liberamente ricavata da un racconto di Stefano Giove, la commedia Il Paradiso dei cafoni, che molto deve, evidentemente, al racconto di Tommaso Fiore (1884-1973) Il cafone all’Inferno, inserito nel libro inchiesta di Fiore del 1955, Edizioni Einaudi, con lo stesso titolo,  che chiudeva una serrata critica alla Riforma agraria del 1950, denunciandone, già allora, fallimenti, incongruenze, errori di ogni sorta, inadeguatezza del mondo politico (con casi conclamati di corruzione, nepotismo e nefandezze d’ogni tipo), verrà rappresentata il 9 luglio prossimo a Ginosa (Ta), per conto della locale UTEP.

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Carrera e Giove, per parte loro, si sono impegnati a re-inventare il racconto di Tommaso Fiore, originariamente ambientato nella campagna foggiana (narrazione orale raccolta a San Nicandro Garganico), mettendo in scena, con questa ri-scrittura, il cafone ginosino Pietro Lomunno, che, passato nell’aldilà, viene via via scacciato, dapprima, dal Paradiso, e, subito dopo, dal Purgatorio, per essere assegnato, con suo grande stupore, all’Inferno, sotto la giurisdizione di Minosse, il giudice severo del canto V dell’Inferno dantesco, Belzebù, diavolo guardiano, Lucifero, signore di tutto l’Inferno, e Nefasto, un novello diavolo, che viene incaricato da Lucifero, appunto, di svolgere una missione esplorativa sulla terra, proprio a Ginosa, per accertare le reale condizioni dei contadini, in quella terra, visto che il deceduto Pietro Lomunno, una volta giunto all’Inferno, piuttosto che lagnarsi e soffrire, giudica molto positivamente la sua nuova situazione di dannato.

Libri che parlano di libri, dunque; parole che rinviano ad altre parole. Le parole di Carrera e Giove rinviano a quelle di Fiore. Le parole di Fiore, a loro volta, rinviavano, da un lato, alle parole del cafone di San Nicandro Garganico, Giovanni Mascolo, e, dall’altro, alle parole infernali per antonomasia, e cioè a quelle di Dante Alighieri. Nel caso di Tommaso Fiore, il morto aveva scontato la pena di esistere nelle campagne del Tavoliere pugliese, in condizioni di estrema miseria, povertà e sfruttamento. Il cafone di Carrera e Giove, invece, aveva vissuto, trascinandosi di fatica in fatica, nelle campagne ginosine, e, anche, in quelle del brindisino e del foggiano (sempre alla ricerca di un  lavoro miserevole).

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Ecco una citazione dal testo di Fiore:

Satana disse ad un diavolo: "Vestiti da contadino e và nel Tavoliere a cercar lavoro in una masseria, per vedere se è vero tutto ciò che ha detto il cafone". Detto fatto, vestito da contadino va a cercar lavoro. Dopo due giorni appena di lavoro, senza nemmeno chiedere il suo conto, torna all’inferno tutto abbattuto, con la testa rotta e insanguinata, le ali mezze sconquassate e spennate, il viso, le mani e i piedi scottati, faceva pietà.

Ecco, qui, una citazione dal testo di Carrera (in particolare, l’episodio in cui il diavolo Nefasto torna nell’Inferno e riferisce a Lucifero che sulla terra la condizione di vita e di lavoro dei cafoni è molto molto più dura dello stesso Inferno):

Signore! Come m’avete comandato sono andato in Puglia, al paese di questo maledetto peccatore, mi sono vestito da cafone e tra i cafoni mi sono infiltrato. Ho lavorato come loro, da sole a ssole, ho mangiato come loro, cialledda fredda e cialledda fredda, ho dormito come loro, insieme alle bestie e peggio delle bestie, chè lì sono considerata dippiù degli uomini! mi sono lavato come loro… (seh! lavato! ‘na tnozz trenta prsun!)… e dopo due giorni che stavo là… non ero più io! Nonn ce la facevo più… e mica è vita quella! Comandà, jiav raggion Petrucce u cuafone… u ‘mbiern jiè ddà!

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Particolarmente intenso è il passaggio nel quale Pietro Lomunno spiega il senso del vocabolo cafone:

A noi, labbascio, ci chiamano cafoni perché non siamo signori, perché la terra che lavoriamo, mica è la nostra, è la loro, dei signori! E noi cafoni lavoriamo da sole a sole… quann ne vè bbuone!!! E qunn ne vè megghji, abbiamo di che sfamarci solo per qualche mese all’anno, u’ rest jiè cialledda fredda! Io andava alla giornat addò potevo e tutte le matine m’alzav all tre che scì for (percé,, quann acchiav la ciurnat, c’arruà nelle terre, m’er a ffà almeno due ore di strata all’appeto).

Quann la giornata non l’acchiavo jind all terr atturn a Genos m n scev nella provincia di Foggia o jind o Brindsin, dalle vanne della Marina ma, tante, non cangiava niente, vossignoria, dove andavo andavo, sempre fam e fridd patscev!...

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Come non ricordare, grazie a questo passaggio della commedia di Carrera, altre parole, quelle di Ignazio Silone (1900-1978), che, a sua volta, in Fontamara, romanzo del 1933 (prima edizione in lingua tedesca), spiegava da par suo il termine cafone:

Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.

La letteratura, si sa, è fatta di rimbalzi, di parole che si rincorrono, oltre il tempo e oltre lo spazio; di parole che parlano di e con altre parole. E questo è il senso autentico del vero classico (si chiami Tommaso Fiore, Dante Alighieri, Ignazio Silone, o altri), capace cioè di parlare al cuore e alla testa di ciascuno di noi in ogni tempo e in ogni latitudine. Lievito e non massa.