Trifone Gargano, 'Dante e... gli altri professori'
Può capitare, (ri)leggendo un vecchio romanzo di Marco Lodoli, I professori e altri professori, del 2003, di incontrare (di re-incontrare) Dante Alighieri,.
Può capitare, (ri)leggendo un vecchio romanzo di Marco Lodoli, I professori e altri professori, del 2003, di incontrare (di re-incontrare) Dante Alighieri, in quelle pagine, e che questa seconda volta, quel romanzo ti dica cose nuove, rispetto alla prima lettura.
A me è capitato, sì, proprio in questi giorni, riprendendo in mano il romanzo di Lodoli (seguendo altre piste di lettura, sulla didattica di-vergente e di-vertente). E questo è il segreto della lettura, in generale (e la lettura dei Classici, in modo particolare, siano essi giganti come Dante, ovvero Classici nostri contemporanei, come Lodoli, saldamente sistemato sulle spalle di quei giganti). E, in effetti, l’immagine di copertina del libro di Lodoli, che è un’opera di Stefano Di Stasio, Paidoforo (del 1991), trasmette a chi la guarda proprio questo messaggio: l’essere, noi contemporanei, dei nani, rispetto ai giganti del passato. Proprio perché nani, però, saldamente seduti sulle spalle dei giganti, riusciamo a vedere lontano:
Concetto già espresso, nel XII secolo, da parte del filosofo francese Bernardo di Chartres:
Nel racconto Un maestro (alle pp. 64-76), che è un tristissimo ritratto di un destino umano, Dante Alighieri viene citato come ricordo dell’esame di maturità, sostenuto in modo disastroso, a dispetto delle premesse, e dell’ottima presentazione fatta da quel professore, per questo ragazzo, che aveva definito come il «migliore» (della classe e dell’intera sua carriera di docente), nell’anno scolastico 1986-’87. In una lunga lettera (immaginaria), scritta da questo (ex) studente al suo ex (e, oramai, vecchio) professore delle superiori, rimproverandogli di aver visto in lui delle qualità, che, poi, in verità, si sarebbero rivelate causa principale (e unica) del suo totale fallimento (umano e professionale):
"Qui sento la voce di un’anima che è destinata a soffrire più di altre. Non ti abbattere *** [...] ma cerca di proteggere il tuo dolore, in cambio un giorno avrai gioie rare. Abbi coraggio, continua a scrivere e vai fino in fondo [...] anche se il mondo non ti viene incontro tu non ti arrendere mai, sii te stesso e vai fino in fondo",
trova posto Dante Alighieri, nei ricordi riguardanti la prova orale dell’esame di maturità. Il protagonista, infatti, ricorda e racconta che agli scritti riuscì a cavarsela «abbastanza bene», ma che, al contrario, gli orali furono un vero (e totale) disastro:
"La professoressa di lettere m’incastrò su una terzina della Divina Commedia, e poi sulla metrica di un’ode barbara di Carducci. Io avrei voluto spaziare, aprire il discorso e tirarmici dentro, come lei, professore, per anni ci aveva insegnato, ma quella batteva sugli accenti, sugli endecasillabi tronchi e sdruccioli, voleva chiarezza e precisione, e nella precisione io mi persi".
Un disastro, quell’esame. Ma, ancor più, un disastro, fatto di continue e irresistibili cadute, il resto della vita, per l’io-narrante del racconto di Lodoli. Pagine che insegnano (senza insegnare), al lettore, specie se si tratta di un lettore professore, che occorra far capire ai ragazzi che la cultura, quando è vera cultura, spinge solo "a disimparare e a ricominciare da capo, sempre", non solo tra i banchi di scuola, ma soprattutto nella vita (in quella vera, quella scandita da secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi e anni, e anni, e anni...). La cultura insegna a tenere la schiena dritta, a essere entusiasti o indignati, "indifferente mai".
E questa è, a ben riflettere, la lezione più grande che giunge a Lodoli, ancora una volta, attraverso Dante Alighieri, attraverso il terzo canto dell’Inferno, nel quale il poeta tuonava contro gli ignavi, gli indifferenti, e, anche, nel diciassettesimo del Paradiso, con l’invito del trisavolo Cacciaguida a farsi "scriba Dei", a non tacere.