Trifone Gargano, 'Dante e Lodoli ...di corsa'

La vita è fatta di incontri, tanto inattesi quanto sorprendenti. Dal colloquio d'esame di Sabtina De Virgilis ala maratona di Marco Lodoli 'Due per il mondo'.

Dante Lodoli capra
PugliaItalia
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di Trifone Gargano

La vita è fatta di incontri, tanto inattesi quanto sorprendenti, che talvolta si rivelano magici. Di recente, mi è capitato proprio uno di questi incontri. Durante un colloquio d’esame, una studentessa del mio corso d’insegnamento presso l’Università degli Studi di Bari, Sabrina De Virgilis, mi ha mostrato un approfondimento grafico, da lei realizzato autonomamente, come illustrazione di un capitolo del mio libro Letteratura e Sport. Da Dante a Pasolini, Editore Cacucci, Bari 2021. Il capitolo è quello sulla corsa, con la mia proposta di lettura, sotto questo profilo sportivo, di un canto dell’Inferno dantesco, il XV, nel quale Dante fa riferimento al Palio del Drappo verde, una maratona che si correva a Verona, e di un romanzo contemporaneo, Crampi, di Marco Lodoli, che racconta della maratona Due per il mondo.

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Il riferimento al Palio del Drappo Verde, che si correva fin dal 1207, è nei versi conclusivi del canto XV dell’Inferno (vv. 121-24):

Poi si rivolse, e parve di coloro

che corrono a Verona il drappo verde

per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

[Poi si voltò indietro (si rivolse) [Brunetto Latini], e sembrò uno di coloro che a Verona corrono per la campagna il palio detto del drappo verde; e tra costoro sembrò quello che vince, non quello che perde]

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Dante e Virgilio si trovano nel III girone del VII cerchio infernale, tra i violenti contro Dio nella natura (i sodomiti). Costoro, così come in vita, furono lacerati da una irrequietezza inesauribile, adesso, sono costretti a camminare senza mai fermarsi, sotto una pioggia di fuoco, da cui tentano inutilmente di ripararsi, agitando le mani. In questa zona dell’Inferno, Dante e Virgilio, mentre procedono lungo gli argini del Flegetonte, il fiume ribollente dell’Inferno, di colore rosso sanguigno, incontrano una schiera di dannati, che procedono in direzione opposta alla loro. Dante viene riconosciuto da un dannato, che lo tira per un lembo della veste: si tratta del suo (ex) maestro fiorentino, ser Brunetto Latini. Il dannato, ovviamente, non può fermarsi, ma percorre un tratto in compagnia di Dante.

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L’incontro tra i due è molto cordiale, e si svolge in un clima di reciproco rispetto e amicizia. Dante rivela a Brunetto di conservare ancora un carissimo ricordo di lui, e, soprattutto, dei suoi insegnamenti («m’insegnavate come l’uom s’etterna», v. 85). Brunetto Latini lancia un’accusa contro i fiorentini, invidiosi, superbi e avari («gent’è avara, invidiosa e superba», v. 68). Infine, scappa via velocemente, per raggiungere la sua schiera. Vedendolo correre, Dante ricorda, per analogia, la gara del "Drappo Verde".

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Anche in altri luoghi del poema dantesco sono presenti espliciti riferimenti alle corse. Basti pensare alla rappresentazione degli ignavi, nel canto III dell’Inferno, che corrono nudi e flagellati da una pioggia mista a grandine e a neve, tormentati dai mosconi e dalle vespe, inseguendo vanamente uno straccio bianco:

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oppure, i golosi del Purgatorio (nei canti XXII-XXV, nella VI cornice), magrissimi, e perennemente in corsa:

Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,

sì come nave pinta da buon vento [Pg., XXIV, 1-3]

[La conversazione (‘l dir) [tra Dante e Forese Donati] non rallentava (più lento) il nostro cammino (l’andar), né il cammino rendeva più lenta la nostra conversazione (lui), ma, conversando, camminavamo velocemente (andavam forte), così () come una nave spinta da un buon vento]

Anche i falsari della persona, nella X bolgia del cerchio VIII dell’Inferno, corrono rabbiosamente lungo le 11 miglia di estensione della circonferenza della bolgia, ultima di dieci, nelle quali espiano le loro colpe i fraudolenti, in tutte le varie declinazioni della frode:

quant’io vidi in due ombre smorte e nude,

che mordendo correvan di quel modo

che ‘l porco quando del porcil si schiude [If., XXX, vv. 25-7]

[quanto io vidi accadere in due anime pallide e nude, che correvano, mordendo come il porco, quando viene liberato (si schiude) dal porcile]

In molte altre circostanze i diavoli svolgono la funzione dell’odierno sprinter.

Il romanzo breve Crampi, di Marco Lodoli, pubblicato da Einaudi nel 1992, ambientato a Roma, narra di una vita strampalata e fallimentare, quella di un certo Cesare, che decide di partecipare alla maratona «Due per il mondo», in coppia, come prevede il regolamento, con un compagno, solo che il suo compagno di gara è una capra, Betta:

Cesare incontrò Betta sull’Appia antica, vicino alla tomba di Cecilia Metella. Il giorno che di colpo era rimasto senza famiglia, andò a comprare un paio di scarpette adatte alla corsa, tre canottiere colorate, due pantaloncini, calzettoni, un bagno schiuma, un grande asciugamano di spugna, una sacca [...].

Da allora prese ad allenarsi, verso sera [p. 23]

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Per vent’anni, Cesare ha distribuito giornali, con il suo furgone, partendo a mezzanotte, per tutta la zona nord di Roma (Sutri, Capranica, Vetralla, ...), di paesino in paesino, senza mai incontrare nessuno, scaricando pacchi incellofanati di giornali e riviste, davanti alle edicole ancora chiuse, e ritirando i pacchi delle rese. Tutto questo per vent’anni. Finché un mattino, di rientro a Roma, Cesare diede fuoco a uno di quei pacchi di giornali, e lo scaraventò nella boscaglia, provocando un grande e devastante incendio. Così. Senza un’apparente ragione. In tutti quegli anni, Cesare aveva guardato da spettatore la sua vita. Quella vita che, sotto i suoi occhi, andava facendosi e disfacendosi. Per esempio, aveva guardato il suo primo incontro con Sofia, la ragazza del distributore di benzina, sulla Cassia. Aveva guardato il suo matrimonio, sempre con Sofia. Aveva guardato la nascita del loro figlio, Giorgio. Aveva guardato, e aveva lasciato però che tutto si sgretolasse, giorno dopo giorno. Insomma, una «via crucis senza capo né coda» [p. 13]. Cesare e Betta, dunque, per partecipare alla maratona, avevano cominciato ad allenarsi con rigore, tutti i giorni:

All’Acquacetosa Cesare non si è mai allenato sulla pista di tartan: lì partenze, curve, accelerazioni le provano quelli che sono i veri atleti, con il nome della società sulla canottiera e le gambe da fenicottero. Se trovano intrusi nelle corsie li sgridano, avvicinandosi molto con la fronte. Sui bordi della pista, dentro il prato, uomini con il cronometro appeso al collo come un crocefisso incitano o consolano i loro pupilli [...].

Sopra le parole volano i giavellotti. Più in là ragazzi dalla mascella sagomata scattano, piantano nella buca l’asta di vetroresina, la flettono, vi si arrampicano come gatti, salgono, salgono tantissimo, e mai una volta che superino l’asticella. Mentre di schiena ricadono dal cielo, allargano le braccia e bestemmiano. [p. 35]

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In gara, Cesare e Betta presero a infilare, uno dopo l’altro, tutti i traguardi intermedi; per non pensare allo stress e al dolore fisico, Cesare si distraeva con altri pensieri:

La riga, occorre seguire la riga nera sul fondo della piscina, pensare solo a quello. Questo era il consiglio che dava ai maratoneti un nuotatore celebre e calvo intervistato dalla rivista «Un passo in avanti». Ma non sempre sulle strade c’è questa riga, obiettava l’intervistatore: perché una cosa è la piscina d’acqua trasparente, un’altra cosa è la strada. La riga, ripeteva il nuotatore, bisogna comunque pensare alla riga perenne che corre sotto. Il resto è distrazione, imballa la testa e i muscoli, appesantisce: il resto fa crescere i crampi [p. 52].

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A vederli correre, quella notte, a Roma, Cesare e Betta sembravano proprio due «di coloro / che corrono a Verona». Due di quelli che vincono, «non colui che perde». Ovviamente.

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