Roma, pizzini a detenuti in attesa di giudizio, indagato il cappellano del carcere di Rebibbia

Don Boldrin accusato di favoreggiamento. Ira del Garante dei detenuti: “Nome e cognome sparati sui giornali”

Roma

Don Lucio Boldrin, cappellano dal 2019 al carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, è finito sotto indagine per favoreggiamento.

Secondo l’accusa avrebbe ''permesso ad alcuni detenuti di comunicare con l’esterno, anche se non potevano’’. Il cappellano in particolare avrebbe ‘’favorito nei contatti con l’esterno detenuti in attesa di giudizio con uno stratagemma: stampava i messaggi sms e whatsapp ricevuti dai familiari e li consegnava ai detenuti”. La notizia è stata riportata da alcuni quotidiani.

Vietato l'ingresso in carcere e perquisita l'abitazione

Al parroco da viovedì è stato vietato l’ingresso in carcere e gli investigatori hanno perquisito la sua abitazione, gli spazi comuni del carcere e la casa del cappellano, ‘’sequestrandogli il pc, diversi telefoni e una serie di documenti, che ora saranno analizzati alla ricerca di dettagli utili’’. L’ultimo messaggio del religioso su Facebook ''risale a mercoledì sera: ’Un’altra giornata in carcere dove non si incontra il reato ma l’uomo con le sue debolezze, peccati, speranze e delusioni’ scriveva. Dopo questo post sulla sua pagina Facebook è calato il silenzio”

Il Garante dei detenuti: “Nome e cognome “sparato” senza alcuna garanzia

“Non conosco i dettagli della vicenda né ho contezza della realtà dei fatti, tutti da accertare al pari della eventuale responsabilità. Noto, però, che nel frattempo la notizia dell'indagine è stata sparata sui giornali con nome e cognome della persona interessata. E mi sembra alquanto discutibile".

Lo dice Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio, commentando l'indagine che vede coinvolto il cappellano di Rebibbia accusato di favoreggiamento per aver recapitato messaggi e biglietti in carcere per permettere a detenuti in attesa di giudizio di comunicare con l'esterno.

"La questione rilevante è se i destinatari di questi messaggi, dei quali il cappellano si sarebbe fatto da mediatore, hanno un vincolo sulla comunicazione all'esterno. Francamente se si apre una indagine legittimamente, non mi sembra il caso di sparare nome, cognome, ruolo - ribadisce Anastasìa - perché è una cosa che finisce per costruire discredito su chi lavora in carcere, si impegna, in questo caso anche con una motivazione religiosa. Dopo tutte le discussioni che sono state fatte sulla riservatezza delle indagini, sul fatto di non dare il nome di persone indagate in pasto alla pubblica opinione, trovare oggi il nome di una persona che opera in carcere prima ancora che i fatti siano minimamente accertati e valutati da un giudice, mi sembra molto discutibile".

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