Sorteggi Champions: nuove regole e fonti di reddito per rilanciare il calcio

Inter e Juve verso gli ottavi con nuove regole per ravvivare il torneo, ma il problema riguarda tutto lo sport più popolare del mondo

Di Lorenzo Zacchetti
Sport
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Nuove regole e nuove fonti di business: così il calcio cerca di rinnovarsi e rilanciarsi 


Lunedì 13 dicembre Inter e Juve conosceranno le loro avversarie negli ottavi di Champions League, che si giocheranno con l’importante novità dell’abolizione del valore doppio dei gol segnati in trasferta: passerà il turno chi avrà segnato più reti tra andata e ritorno, altrimenti decideranno supplementari e rigori. Si tratta di una svolta storica per gli amanti del calcio, perché fin dal 1965 si era deciso di premiare i gol segnati fuori casa – in caso di parità nel doppio confronto – per favorire un gioco più offensivo e scongiurare le barricate in difesa. A 56 anni di distanza, il Comitato Esecutivo della Uefa ha deciso per un cambio netto, ritenendo che, paradossalmente, tale regola scoraggiasse le squadre di casa dall’attaccare troppo esponendosi a contropiede (specialmente nelle gare di andata) e che, tutto sommato, “il vantaggio in casa oggi non sia più così significativo come una volta” (parole del Presidente Aleksander Ceferin). 

La rincorsa al pubblico giovane

Questa importante novità regolamentare è l’ennesimo tentativo per ravvivare l’interesse su una competizione che, a trent’anni dall’introduzione dell’attuale denominazione avvenuta nel 1992, comincia a dimostrare i segni dell’età. Basterà? Non secondo i club promotori della Superlega che, denunciando proprio il carattere “noioso” della Champions League, proponevano e propongono riforme ben più radicali, a partire dai tre tempi invece dei canonici due, spezzettando i tempi di gioco per venire incontro alla ridotta capacità attentiva della cosiddetta “generazione Fortnite”. Il problema va ben oltre il calcio, in quanto diversi studi delle neuroscienze dimostrano come nell’era digitale si siano nettamente abbassate sia la capacità di concentrazione, sia le facoltà intellettive più generali. Del tema bisognerà necessariamente occuparsi in sedi più opportune, ma intanto le stesse big del calcio si sono portate avanti: basta sbirciare i loro social per trovarvi sempre più spesso singole giocate, minivideo realizzati fuori dal campo e comunque “pillole” comunicative destinate a un pubblico sempre più a suo agio con le somministrazioni brevi tipo serie tv e che invece fatica a seguire i canonici 90 minuti che da oltre un secolo fanno sognare il mondo. 

Spettatori in fuga e ricavi in calo

Lo sport più popolare del pianeta sta quindi diventando roba da boomer? Il rischio c’è e non è l’unico. Il calo di interesse si incrocia in maniera potenzialmente letale con una crisi economica che invece necessiterebbe di un robusto aumento dei ricavi. Il triste spettacolo delle partite a porte chiuse durante la fase più difficile del Covid-19 ha solamente esasperato un problema che preesisteva da tempo: il calo degli spettatori negli stadi è l’effetto diretto di una sempre più evidente rilevanza delle dirette-tv, con tutti i problemi che si sono registrati a seguito di una moltiplicazione dei player che oltre alle difficoltà tecniche hanno costretto i tifosi da divano a peripezie tra diversi abbonamenti, decoder e piattaforme streaming. Una complicazione che i fan più accaniti hanno sopportato di buon grado, ma che sicuramente non ha avvicinato il pubblico più occasionale. 

Dai fan token alle plusvalenze

Dai fan token alle plusvalenze

Colpiti nelle fonti di ricavo più classiche del business del calcio, i club hanno quindi dovuto lavorare di fantasia, tra nuovi prodotti di comunicazione come le serie tv tipo “All or nothing”, una via di mezzo tra il documentario e il reality show, oppure il matrimonio con le aziende operanti nel settore delle criptovalute, che in questa stagione hanno fatto il loro fragoroso ingresso nel mondo del pallone sia come sponsor, sia attraverso operazioni più sofisticate come il trasferimento di Leo Messi dal Barcellona al Paris Saint Germain, che gli riconoscerà parte dei bonus contrattuali in crypto token. Tali scelte gestionali stanno suscitando alcune perplessità nei tifosi più tradizionalisti che, appunto, finiscono sempre più spesso col sentirsi boomer in un mondo che cambia troppo velocemente. Ci sono poi strategie ben più consolidate come la realizzazione di plusvalenze che, se sono reali, rappresentano un indice della capacità manageriale, mentre se sono fasulle sono vere e proprie truffe. Ovviamente sta facendo molto discutere l’inchiesta sulla Juventus, vista anche l’importanza del club sotto i riflettori, ma chi conosce il calcio sa bene che i sospetti su alcuni scambi di giocatori risalgono a non meno di vent’anni fa. Allora gli accertamenti portarono a un nulla di fatto, arenandosi sulla difficoltà di dare un valore oggettivo al cartellino di un giocatore, in un mondo nel quale un singolo trasferimento può valere quanto il PIL di una nazione di medie proporzioni. Vedremo come andrà a finire questa vicenda, lasciando agli inquirenti il compito di accertare la verità, ma è un dato di fatto che bisogna essere dei Maradona del management per gestire in maniera virtuosa società operanti in un mercato nel quale le perdite di esercizio sono praticamente scontate. 

Una crisi di portata internazionale

Ci sono anche esempi di managerialità da imitare, come ad esempio Atalanta e Udinese, ma nel contempo c’è anche il fenomeno della sempre più frequente presenza di proprietari stranieri che sicuramente portano soldi freschi, ma che talvolta portano anche problemi, come insegna l’esperienza della Premier League inglese. A Milano e a Roma i piani per il futuro delle società calcistiche si legano a doppio filo alla realizzazione di nuovi stadi che pongono i rispettivi sindaci di fronte a decisioni difficili, col rischio di riaccendere quell’opposizione che solo pochi mesi fa avevano facilmente sbaragliato nelle rispettive elezioni. Il problema non é solo italiano. Se da tempo di discute della necessità di ridurre la Serie A a 18 squadre, se non a 16 (con le attuali 20, troppe partite sono di scarso livello e interesse), anche la Liga spagnola sta litigando sulle riforme. Il progetto “Liga Impulso” prevede che il fondo americano di private equity CVC versi nelle dissanguate casse dei club iberici una cifra complessiva di 2,1 miliardi di euro per ottenere il 10,95% dei ricavi dai diritti audiovisivi per i prossimi 50 anni. Ad opporsi non sono solo le due superbig promotrici (con la Juventus) della Superlega, ovvero Real Madrid e Barcellona, ma anche Athletic Bilbao e Oviedo. Un'operazione molto simile era stata ipotizzata dallo stesso fondo sul campionato italiano, ma alla fine un'opposizione guidata dalla Juventus contribuì ad arrivare a un nulla di fatto.

La profezia di Platini sul calcio-business

Se proprio per il suo clamoroso dissesto economico il Barcellona è stato eliminato dalla Champions League già nella fase a gironi (non succedeva da vent’anni) e potrebbe trovare una squadra italiana in Europa League, il Real Madrid è ancora in corsa, dopo aver nettamente battuto l’Inter al Bernabeu. La Juve non corre il rischio di affrontare negli ottavi le temibili “merengues” spagnole – entrambe le squadre hanno vinto i rispettivi gironi – ma potrebbe trovare i miliardari del Paris Saint Germain, che dopo aver fatto spese folli nel mercato degli ultimi dieci anni vogliono assolutamente conquistare la loro prima Champions League. L’ingresso dei Paperoni nel mondo del pallone (Nasser Al-Khelaïfi a Parigi, ma anche lo sceicco Mansour al Manchester City e prima ancora Roman Abramovich al Chelsea) aveva spinto l’allora Presidente della Uefa Michel Platini a lanciare un allarme molto chiaro: “Bisogna mettere delle regole, perché non è accettabile che ci si possa comprare con i soldi il successo sportivo”. Come è finita lo sappiamo: chi ha avuto problemi con i soldi è stato proprio l’ex juventino, destituito dalla carica con l’accusa di corruzione, mentre le auspicate riforme del calcio sono rimaste lettera morta, a cominciare da quel Fair Play Finanziario che sulla carta esiste, ma nei fatti viene dribblato più facilmente di un difensore di Serie D. 

Il downsizing come via di uscita (con l’incubo Mondiale)

Il sistema è saltato quando l’avidità si è trasformata in bulimia e il calcio è passato da anni di vacche grasse alle più recenti fasi di crisi, nelle quali ci siamo abituati a vedere famose squadre di Serie A giocare senza nemmeno uno straccio di sponsor sulla maglia. Per anni gli investimenti pubblicitari sono stati cannibalizzati dalle big del pallone, a tutto danno degli altri sport che ora si stanno prendendo la rivincita: le aziende più lungimiranti puntano su discipline magari meno seguite, ma associate a valori positivi e non certo a furberie sul campo e nei bilanci. Proprio un “downsizing” ragionato potrebbe essere la vera chiave per evitare di rassegnarsi al de profundis del più amato sport del globo. Il dilagare dei calciatori stranieri anche in squadre di livello mediocre ha seguito le nuove norme di un mondo che è cambiato (ed era giusto che lo facesse), ma ha anche accentuato la frattura tra i singoli club e i rispettivi territori, sulla quale invece si fonda gran parte del senso di appartenenza dei tifosi. Questi ultimi, troppo spesso trattati come clienti, giustamente si sentono a disagio. Un vero tifoso è capace di gesti estremi come spargere le ceneri dei genitori intorno allo stadio della squadra del cuore e non è certo il caso di spremerlo come un limone anche ricorrendo alla proliferazione di magliette che, oltre ad essere brutte, non hanno alcun legame con la tradizione dei rispettivi club. Chi si occupa di marketing sportivo non può trascurare i valori fondamentali di questo mercato specifico, che hanno più a che fare col cuore che col libro mastro. In tale complicato scenario, il business del pallone è sempre legato alle imprevedibili vicende del campo. A febbraio si giocheranno, appunto, gli ottavi di finale di Champions League, ma a marzo la nazionale di Roberto Mancini sarà impegnata negli spareggi per andare ai mondiali in Qatar: fallire per la seconda volta consecutiva, dopo Russia 2018, costerebbe intorno ai 100 milioni. Un disastro assoluto.