L'avvocato del cuore
Unioni civili, i nodi di matrimonio e adozioni: quanti campanelli d'allarme
Le unioni civili hanno da poco festeggiato quattro anni: l’11 maggio 2016, dopo un lungo e tormentato dibattito politico (e non solo), il Parlamento italiano approvava la tanto agognata Legge n. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà), introducendo finalmente nel nostro ordinamento giuridico (vergognosamente fra gli ultimi a farlo, nel panorama europeo) la disciplina che ha riconosciuto e regolamentato le unioni fra persone dello stesso sesso.
Da allora, circa 10.000 coppie omo-affettive, dunque circa 20.000 persone, hanno potuto finalmente coronare il proprio sogno d’amore dando vita a quella che il Legislatore definisce una “specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione”.
Farlo è semplice: è sufficiente rendere l’apposita dichiarazione (contenente i dati anagrafici delle parti, la loro residenza, la scelta del cognome, l’indicazione del regime patrimoniale prescelto) dinanzi all’ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni. A quel punto, i due “acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (art. 1, comma 11).
In particolare: possono decidere di assumere un cognome comune a scelta fra i loro, per la durata dell’unione civile; sono tenuti all’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione (un evidente richiamo – volutamente parziale, giacché manca il riferimento al dovere di fedeltà – all’analoga disposizione che il codice civile prevede per i coniugi); ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, è tenuto a contribuire ai bisogni comuni; in mancanza di una diversa convenzione, come tra i coniugi, vigerà fra loro il regime patrimoniale della comunione dei beni; alla morte dell’uno, l’altro godrà delle medesime tutele successorie che la legge riconosce al coniuge; analoghe aspettative anche con riferimento alla pensione di reversibilità e alla quota di TFR.
Quando l’amore finisce, per sciogliere l’unione civile sarà sufficiente per i due, anche disgiuntamente, manifestare all’ufficiale dello stato civile la volontà di porvi fine. Decorsi tre mesi da allora, le parti potranno presentare la domanda di scioglimento dell’unione civile, alla quale si applicherà – in ragione dell’ampio rinvio contenuto nel comma n. 24 della Legge – la disciplina del divorzio. Con un’unica, fondamentale, differenza rispetto ai coniugi: la possibilità di divorziare direttamente, senza la “tappa obbligata” della separazione (ancora incomprensibilmente obbligatoria per i coniugi, nonostante l’entrata in vigore del c.d. “divorzio breve” ne abbia ormai del tutto svilito il senso).
Con riferimento ai rapporti di filiazione, la Legge, prima di giungere alla versione approvata, prevedeva la possibilità di ricorrere all’istituto della stepchild adoption, cioè dell’adozione del figlio del partner omosessuale. Dopo il lungo tira e molla politico, nel testo definitivo della Legge n. 76/2016 è stato abolito qualsiasi esplicito riferimento a questo istituto.
Ciò non significa, però, che questa possibilità di adozione sia del tutto preclusa: il Legislatore, poco coraggiosamente, non volendosi sbilanciare ha lasciato ampio margine di intervento ai Giudici, che l’hanno saputo adeguatamente mettere a frutto, grazie all’interpretazione evolutiva e adeguatrice della disciplina delle adozioni in casi particolari (art. 44, L.184/1983).
Così, dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 12962/2016 in poi, pur in assenza di norme specifiche, molte sono state le pronunce che hanno riconosciuto veste giuridica al rapporto fra il membro dell’unione civile e il figlio biologico dell’altro.
Indubbiamente, questa Legge ha rappresentato per il nostro Paese – retrogrado e conservatore – una vera e propria riforma. Non solo legislativa, ma prima ancora politica, sociale, culturale, intellettuale, civile.
Altrettanto indubbio, però, che il testo definitivamente approvato sia stato vissuto da molti (me compresa) come un “tiepido” compromesso. Certo più audace e più coerente sarebbe stato il Legislatore se, anziché creare un istituto ad hoc, fosse intervenuto direttamente sul codice civile, modificandone tutte le disposizioni che parlano di “marito” e “moglie”, rendendo così accessibile l’istituto del matrimonio anche alle coppie omoaffettive.
Nel nostro Paese, infatti, due persone dello stesso sesso che si amano possono unirsi, ma non sposarsi. Devono assistersi moralmente e materialmente, devono coabitare, devono contribuire ai bisogni comuni, ma possono tradirsi (come se fosse scontato che il legame fra due uomini o fra due donne non possa ambire a quel grado di certezza e solidità riconosciuta invece, con il matrimonio, alle coppie eterosessuali). Possono adottare l’una i figli dell’altra (grazie all’escamotage interpretativo elaborato dai Giudici), ma non possono generarne di propri, tramite maternità surrogata o procreazione assistita. Possono assumere l’una il cognome dell’altra, ma nessuna delle due potrà aspirare al rapporto di “affinità” con la famiglia d’origine dell’altra (con tutte le conseguenze che questa svista legislativa ha determinato nel recente diffondersi della pandemia, dove l’atecnica condizione di “congiunti” è salita alla ribalta).
Tutti campanelli d’allarme che, a una riflessione più approfondita, svelano la portata tristemente discriminatoria che ancora caratterizza la disciplina delle unioni civili.
Insomma, la strada è ancora lunga e, come recentemente dichiarato dalla senatrice Monica Cirinnà, “è giunto il momento di completare il lavoro iniziato quattro anni fa”.
* Studio legale Bernardini de Pace