Guerra, statue e razzismo. Parla Stefano Luconi
Stati Uniti: dalla discriminazione ai limiti del "political correctness". L'intervista
Dopo una notte di scontri e cariche della polizia, lo scorso 12 agosto, negli Stati Uniti un corteo antirazzista si è opposto a una precedente manifestazione di suprematisti bianchi organizzata, il giorno prima, per contestare la decisione di rimuovere il monumento equestre di Robert E. Lee (generale della Confederazione del Sud, ai tempi della guerra civile). D’improvviso un' auto si è lanciata sulla folla: e una donna, Heather Heyer (32enne), è morta. Quasi 30 i feriti. E non solo: perché in circostanze da verificare, due agenti hanno perso la vita nello schianto dell’elicottero di pattuglia. James Alex Fields Jr. (20anni) è stato accusato dell'investimento, e quindi arrestato. Sono i fatti di Charlottesville (Virginia): e a due settimane di distanza, se ne discute ancora. Donald Trump ha condannato sottovoce prima, e con decisione poi. Fino a sollevare un polverone (con la terza uscita ufficiale) sostenendo che è stata «colpa di entrambe le parti»: estrema destra ed estrema sinistra. Dalla cronaca, però, si è passati presto al dibattito: il dibattito sulla cosiddetta «guerra delle statue» – lasciti di un passato razzista per alcuni, tesori da conservare per altri. E Affari Italiani ne ha parlato con Stefano Luconi, docente di Storia dell'America del Nord nelle Università di Firenze e Napoli «L'Orientale».
Professore, ci spieghi: quelle statue possono considerarsi, oggi, simboli razzisti?
«Decisamente sì. I soggetti in effige sono stati scelti in modo deliberato per esaltare la supremazia dei bianchi sui neri. I personaggi raffigurati, infatti, non sono il simbolo del mondo della Confederazione com’ era prima della sconfitta nella guerra civile, con i suoi valori – o presunti tali – di virtù militari, quasi cavalleresche, e di una società agricola e paternalistica che aborriva la crescente industrializzazione del Nord, una regione contrassegnata invece dal crescente degrado urbano e dallo sfruttamento indiscriminato degli operai nelle manifatture».
E cosa rappresentano, allora?
«Le personalità del Sud che difesero lo schiavismo e soprattutto il principio dell’inferiorità degli afroamericani. Come è noto, la cosiddetta ”guerra delle statue“ è scoppiata per proteggere il monumento equestre del generale Robert E. Lee a Charlottesville, in Virginia. Lee non era solo un grande stratega militare».
E chi era?
«Agli occhi di chi ha eretto la sua statua era soprattutto il comandante militare che nell’ottobre del 1859, prima ancora che Abraham Lincoln fosse eletto alla presidenza e cominciasse la guerra civile, soffocò il tentativo di rivolta degli schiavi della Virginia che un abolizionista bianco, John Brown, aveva cercato di fomentare. E ancora Roger Taney, il cui monumento è stato rimosso a Baltimore, nel Maryland, non era soltanto un autorevole giurista. Era, in particolare, il presidente della Corte Suprema federale che nel 1857, dunque quattro anni prima dell’inizio del conflitto militare tra il Nord e il Sud, redasse la sentenza sul caso “Dred Scott contro Sandford”. Questo verdetto sancì che i neri, a prescindere dalla loro condizione giuridica di individui liberi o schiavi, non erano cittadini degli Stati Uniti a causa della loro ascendenza africana, e quindi non godevano neppure dei diritti che derivavano dalla cittadinanza americana. Tra l’altro Taney non aderì neppure alla Confederazione, ma continuò a svolgere le sue funzioni giudiziarie nell’Unione, sotto l’amministrazione di Lincoln, fino alla morte nel 1864. Mancano piuttosto statue di esponenti del Sud che non condivisero le politiche di sottomissione degli afroamericani».
Per esempio?
«Per esempio non esiste un monumento al generale James Longstreet, eccezion fatta per una statua a Gainesville, in Georgia, dove morì. Longstreet fu a lungo il vice di Lee nel corso della guerra civile e dimostrò forse più acume militare del suo più famoso superiore perché, per dire, sconsigliò l’attacco frontale della fanteria alle forze nordiste che provocò la disfatta delle truppe confederate nella battaglia di Gettysburg. Però, nel dopoguerra, Longstreet fu favorevole alla concessione del diritto di voto agli afroamericani e nel 1874, in qualità di comandante della polizia di New Orleans, impedì alla White League – un’organizzazione razzista che rappresentava la versione locale del Ku Klux Klan – di marciare sull’assemblea legislativa della Louisiana. Il fatto che Longstreet disapprovasse le posizioni dei suprematisti bianchi lo ha condannato a un sostanziale oblio.
Una dimenticanza non casuale, dunque.
«La sua rimozione dalla memoria storica collettiva, nonostante il suo rilievo, costituisce un’ulteriore dimostrazione di come i monumenti di cui si sta dibattendo siano espressione del razzismo e non immagini di un particolare tassello della storia del Sud, come vorrebbe invece il presidente Trump».
E’ una ferita ancora aperta quella della Guerra Civile?
«Non direi proprio. La ferita fu progressivamente rimarginata nel mezzo secolo intercorso tra il 1873 e il 1925, quando i bianchi del Nord e quelli del Sud riuscirono a superare le lacerazioni e a ristabilire la coesione interna della società statunitense attraverso uno sforzo comune volto a tenere a freno le rivendicazioni degli afroamericani e il loro anelito all’eguaglianza giuridica, sociale ed economica. Il periodo indicato è quello che si estese tra la prima sentenza della Corte Suprema per ridimensionare la concessione dei diritti civili e politici ai neri, stabilita dal XIV e dal XV emendamento della Costituzione, e il processo al leader del Ku Klux Klan dell’Indiana, che screditò questa associazione razzista agli occhi dell’opinione pubblica. La ferita ancora aperta è un’altra».
Quale?
«Quella del razzismo e della discriminazione degli afroamericani, il principale lascito della fase della storia in cui la schiavitù era legale».
Quindi la frattura tra bianchi e neri.
«La frattura tra bianchi e neri è un aspetto di uno scontro molto più ampio e profondo: riguarda il principio su cui basare il concetto di nazione negli Stati Uniti. Da un lato, ci sono i suprematisti bianchi che fondano la nozione di America sulla razza, per cui può essere considerato uno statunitense solamente chi è di origine o ascendenza europea».
E dall’altro?
«Chi ritiene che l’essenza dell’America non abbia niente a che vedere con la stirpe e con il sangue, ma trovi invece le proprie radici in un complesso di valori quali soprattutto la libertà, l’eguaglianza e la democrazia. La spaccatura è quella tra la visione di un’America inclusiva e una concezione di un’America solo per bianchi, alla quale non apparterrebbero né i neri, né gli ispanici, né i nativi americani e neppure gli ebrei. Non a caso, la cosiddetta “guerra delle statue” sta travalicando le personalità del Sud e si sta allargando ad altre figure».
Come Cristoforo Colombo.
«Nel mirino è finito anche il monumento eretto a Cristoforo Colombo a New York e collocato a Columbus Circle nel 1892, che il sindaco italoamericano della città, Bill de Blasio, ha proposto di far rimuovere. Colombo, ovviamente, non ha niente a che vedere con la guerra civile. Ma per alcuni è diventato la personificazione di una particolare interpretazione della società americana, quella che vorrebbe che la natura degli Stati Uniti fosse esclusivamente la proiezione della colonizzazione europea, a tal punto da legittimare, almeno implicitamente, il genocidio delle popolazioni autoctone».
Ma trasferire criteri e giudizi presenti su fatti e personaggi del passato non è da considerarsi un anacronismo?
«Lo è sicuramente. Non bisogna cadere negli eccessi della “political correctness” e, per esempio, mettere al bando nelle scuole e nelle università la lettura di Le avventure di Huckleberry Finn – perché l’autore, Mark Twain, usa la parola “negro” – oppure, peggio ancora, arrivare addirittura al punto di riscrivere il romanzo, sostituendo con altri lemmi i termini che urtano la suscettibilità odierna degli afroamericani. Occorre anche sottrarsi all’illusione banalizzante e semplicistica che sia sufficiente rimuovere o abbattere un migliaio di monumenti dedicati a personalità del Sud per superare le lacerazioni del razzismo e annullare la distanza che, ancora oggi, separa una larga maggioranza dei neri dalla condizione socio-economica media dei bianchi negli Stati Uniti. Nella diatriba sulle statue il problema è un altro».
Cioè?
«I monumenti non costituiscono rappresentazioni storiche; non sono musei che spiegano – o dovrebbero spiegare – al visitatore le vicende del passato. Sono, invece, espressione del sistema di potere che li ha eretti; hanno finalità celebrative e pertanto una valenza politica che, nella fattispecie, è quella di esaltare la supremazia dei bianchi e di manifestare pubblicamente la volontà di relegare gli afroamericani ai margini della società statunitense. Ripeto: in discussione non è chi fossero Lee e Taney nel tempo in cui vissero e operarono, bensì quale significato ha voluto attribuire al ricordo di queste due figure chi, ad anni di distanza, si è proposto di dedicare loro una statua. Non dovrebbe passare inosservato il dettaglio che il monumento a Taney è stato installato nel 1879 e quello a Lee è stato progettato nel 1917 e inaugurato nel 1924».
Un dettaglio non secondario.
«L’erezione di queste statue risale proprio a quella fase della storia degli Stati Uniti in cui la riconciliazione nazionale dopo la fine della guerra civile si manifestò con l’impegno concertato degli ex nemici per arginare le richieste degli afroamericani nel campo del godimento effettivo dei diritti civili e politici».
@Simocosimelli