Lo ius soli visto dallo stomaco
Sul “Corriere della Sera” si dice che, riguardo allo ius soli, il dibattito nazionale non è soltanto molto partecipato e molto appassionato, ma è addirittura avvelenato. Le posizioni sono molto nette, e l’avversario è addirittura demonizzato, fino ad una battaglia senza esclusione di colpi e di aggettivi. È naturale che una persona moderata rigetti questo genere di atteggiamenti. Gli argomenti in favore o contro una determinata tesi non divengono più validi se sono gridati. Ma può essere interessante cercare di scoprire perché, in certi casi, si arriva appunto allo scontro più duro. Insomma, se accanto agli argomenti razionali ci sono quelli affettivi, e accanto agli argomenti più nobili ci sono quelli più prosaici, può essere opportuno non trascurare nessuno di questi elementi, soprattutto dal momento che sono reputati tanto coinvolgenti.
La nazionalità si acquista fondamentalmente in due modi: perché figli di genitori che hanno quella nazionalità (ius sanguinis, diritto del sangue) e perché nati sul territorio di un certo Stato (ius soli, diritto del suolo). Il primo diritto è fondato, ovviamente, sul fatto che i genitori, educando il figlio, gli comunicano naturalmente una lingua, una mentalità e un sentimento di appartenenza. Insomma una cittadinanza, senza che il nato l’abbia richiesta e senza che abbia avuto alcun merito per ottenerla. Lo ius soli è invece più discutibile, perché può anche avvenire che uno nasca in un determinato Paese soltanto perché la madre, di passaggio in aereo, ha avuto le doglie in anticipo. E il nuovo nato, soprattutto se in seguito ha vissuto altrove, non ha in sé stesso nulla che corrisponda a quella nazionalità. Se questo principio è stato adottato dagli Stati Uniti è perché, almeno all’inizio, essi avevano il bisogno di incoraggiare al massimo l’immigrazione, dal momento che il Paese era immenso e spopolato. Ma normalmente la concessione della nazionalità allo straniero è condizionata al fatto che questi la voglia e la meriti. E se la merita, sarebbe assurdo negargliela.
Lo ius soli costituisce – per sé – uno degli elementi che militano a favore della concessione della nazionalità, se qualcuno la richiede. Ma sarebbe assurdo reputarlo sufficiente, da solo, per quella concessione. E infatti, anche nella legge che è attualmente proposta in Parlamento, non si tratta di uno ius soli di questo genere, cioè automatico e incondizionato. Il diritto alla cittadinanza è combinato con il cosiddetto ius culturae (conoscere la lingua italiana, avere frequentato scuole italiane, accettare i valori della nostra Costituzione). E a partire da questo punto si entrerebbe seriamente nella discussione, se non fosse che in questa sede si vuole parlare d’altro, e in particolare delle ragioni profonde, “di pancia”, come si dice, che in materia di cittadinanza italiana militano in favore di una grande apertura o di una grande chiusura agli stranieri. A favore di una facile concessione della cittadinanza italiana milita innanzi tutto un sentimento molto nobile e molto corrente a sinistra, dove si vede ogni “no” come una discriminazione, un’ingiustizia, e al limite una crudeltà.
Questo sentimento induce a proclamare come un’assoluta ovvietà “il dovere dell’accoglienza” nei confronti di chiunque sia in bisogno. Inoltre molti pensano che, concedendo la cittadinanza, si favorisce grandemente l’integrazione dei nuovi venuti nel tessuto nazionale. Essendo dichiarati italiani, i nuovi venuti certamente si sentiranno in dovere di comportarsi come tali e di contribuire alla serenità e alla prosperità nazionale. La maggior parte dei motivi a favore di una grande apertura all’accoglienza e alla concessione della cittadinanza sono di ordine ideale. Qualcuno tuttavia, volendo scendere sul piano della concretezza, parla anche degli immigrati come di una nuova “forza lavoro” che contribuirà a pagare le pensioni ai nostri vecchi, dal momento che noi italiani facciamo sempre meno figli.
I motivi di segno opposto sono costituiti da qualche osservazione teorica, e prevalentemente da considerazioni prosaiche. E a volte, infine, semplicemente da riflessi emotivi. Sono contro lo ius soli in primo luogo i poveri. Questi sperano sempre in un aiuto dallo Stato, e temono di doverlo condividere con i nuovi poveri. Il pericolo è aggravato dai proclami degli idealisti, quando parlano del dovere nazionale di dare un lavoro e un tetto agli immigrati. Infatti molti dei nostri poveri un lavoro non l’hanno e spesso hanno serissimi problemi abitativi, aggravati dall’esistenza mitologica di un “diritto alla casa”. Ecco perché la proclamazione di un intangibile “dovere dell’accoglienza”, da parte di tanti benestanti di sinistra, suona come una provocazione per i poveri che non si sentono accolti, loro italiani da sempre, dalla comunità nazionale. La sola idea che lo Stato dia una casa agli immigrati li fa schiumare di rabbia.
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